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Non tutte le ciambelle escono con il buco, si sa. Neanche quelle di Taylor Swift, che negli ultimi anni, di ciambelle “bucate”, ne ha prodotte in serie, più o meno ininterrottamente da 1989 – il disco della svolta, quello di Shake it off, del 2014 – all’ultimo e ambizioso The tortured poets department, uscito ad appena aprile 2024. E invece. E invece il nuovo The life of a showgirl, uscito lo scorso weekend con il solito clamore che accompagna ogni mossa di quella che ormai è la regina della musica mondiale, invitando colleghi da tutto il mondo a tenere in cantina per un’altra settimana i loro lavori per non essere fisiologicamente oscurati (tiè), be’, è un’opera debole.

I problemi del nuovo album

Intendiamoci: qui non si sta dando adito a quelli che aspettavano il primo passo falso di Swift per dire che è “sopravvalutata”, “incomprensibile”, insomma per chi vede in questo testacoda – perché di ciò si tratta, al di là del risultato commerciale enorme che avrà, anche perché lì ormai entrano in ballo altri fattori, in cui è comunque regina – svela il presunto bluff della cantautrice statunitense, in realtà sopravvalutata. Al contrario, i problemi di The life of a showgirl sono evidenti proprio al confronto con i dischi passati, perché qui quegli elementi che finora l’hanno resa unica e vincente risultano come corrosi, sviluppati male, se non proprio traditi. E pensare che, di nuovo, l’artista c’è eccome, e pace per chi si era scandalizzato dall’inserimento di lei in una lista (che lasciano il tempo che trovano) con i migliori chitarristi di sempre. Sacrilegio, ma anche no: Swift, ce ne fosse ancora bisogno, è musicista vera, figlia del country in cui si è formata e da cui poi ha svoltato verso il pop.

Di base, però, ha costruito il suo successo, in termini artistici, su tre pilastri, che qui vengono meno, in favore di… niente. Il primo è strettamente musicale: nei progetti più amati, quelli che l’hanno fatta “prendere sul serio” dalla critica, come Folklore ed Evermore (entrambi del 2020), si è sempre circondata di produttori che dessero un’impronta più indie alla sua musica, che fossero suoni folk elettronici o altri legati agli anni ottanta, con risultati spesso tali da far dire a chiunque che, in ogni caso, non è una delle tante. In The life of a showgirl è tornata a lavorare con Max Martin, producer che aveva messo le sue mani d’oro su 1989 e prima e dopo aveva collaborato con tutte le altre grandi popstar statunitensi, da Ariana Grande a Lady Gaga, per restare alle ultime. Il risultato – complice anche una scrittura sorprendentemente scolastica – stavolta però è un pop trasparente e inoffensivo, del tutto privo del carisma e dei piccoli dettagli micidiali che eravamo abituati a sentire nei suoi dischi. E che, anche per un orecchio meno attento, costituivano comunque un elemento cruciale, fosse anche inconsciamente. Forse calcolando male l’atterraggio, Swift è tornata alle regole di 15 anni fa, sconfessando gran parte della strada fatta finora, convinta di farcela comunque. Si sbagliava.

Non è più “una di noi”

Gli altri aspetti che hanno fatto la sua fortuna, e che sono tra loro collegati, sono la capacità di costruire e raccontare mondi – appunto, tutto il discorso sulle “ere” e la consequenzialità dei suoi album – e soprattutto di raccontarsi. Ogni album è, in sintesi, un viaggio in nuove pagine del suo diario segreto, tra amori, delusioni, speranze e quant’altro, tutte evocate con il respiro del Grande Romanzo Americano. Fantastico, sia per la resa – ha imparato tutto dal country, un genere molto narrativo per definizione – che per i risultati, perché milioni di persone si sono riveste nei suoi bei testi, sempre ripetendo la stessa cosa: è una di noi, o almeno sembra tale. Swift, insomma, come una popstar mondiale, lontana eppure vicina – con i problemi, i pensieri – al pubblico. Evviva.

Il problema, perfino antipatico, di The life of a showgirl sta qui: nato durante l’incredibile The eras tour (2023 e 2024, quello passato anche in Italia, con la doppia data di Milano), racconta solo la vita di una star all’apice del successo, a partire già dal titolo. Ed è la prima volta in cui Swift si vende come tale in tutto e per tutto, tracciando un solco più ampio con il pubblico. Che sarà disposto lo stesso a seguirla? Si vedrà, verosimilmente sì, ma il problema resta, non tanto perché lei stessa si racconti come una star di successo – le storie di noia e contraddizione, derivanti da certi ruoli, abbonando nella musica, rap in primis – ma perché lo fa male. Là dove ci si sarebbe aspettati un passo in avanti, almeno in termine di contenuti (non so, boh, il senso di vuoto? Ammesso che lei lo provi, ma sarebbe interessante), il risultato è invece un lavoro sterile, con pensieri qualunquisti sul comportamento opportunistico di chi gravita intorno ai personaggi famosi, frecciatine assortite (ce n’è una, forse, per Charlie XCX, anche se pare smentita), riferimenti generici e soprattutto una voglia senza senso di trovarsi dei nemici immaginari. Come se fosse in crisi, cosa che non è, spinge sul pedale del “noi e loro”, dinamica che in musica funziona – lei stessa ne è la testimonianza, in Italia c’è Ultimo – ma di cui qui si è persa oltremodo la misura. Faide su faide, senza motivo.

Non può permettersi errori?

Insomma, in The life of a showgirl Taylor Swift non è Taylor Swift. Difficile dire perché, forse la lavorazione, visto che è avvenuta di fianco a un tour così impegnativo, è stata sottovalutata. Forse è concentrata sul suo matrimonio con Travis Kelce, giocatore di football americano che in The life of a showgirl è un po’ l’ancora di salvezza (un po’ poco, viene da dire), mentre è realistico pensare a un album anche per le nozze. Verosimilmente, questo è solo un disco di passaggio: di per sé un qualcosa di normale e fisiologico, non fosse che a una gigante così, per ciò che ha costruito e per come l’ha fatto, un momento come questo non è permesso.