voto
8.0
- Band:
TESTAMENT - Durata: 00:50:24
- Disponibile dal: 10/10/2025
- Etichetta:
- Nuclear Blast
Streaming non ancora disponibile
Quando si parla di Big 4, le richieste di aggiornamento o di ampliamento dei suoi componenti piovono costantemente a dismisura. Ed una delle band puntualmente chiamata in causa dagli addetti ai lavori, o dagli affamati consumatori di thrash metal, ingiustamente rimasta esclusa dalla speciale categoria, e quindi meritevole di entrare a farne parte, ha un nome ben preciso.
Stiamo ovviamente parlando dei Testament, maestri assoluti del genere, nuovamente in azione con il loro quattordicesimo capitolo discografico: “Para Bellum” esce nella prima metà di ottobre, e verrà celebrato a dovere con un tour europeo (iniziato a dir la verità in questi giorni) in compagnia di Obituary, Destruction e Nervosa che toccherà anche il nostro paese – ed in grado di aver già fatto registrare un corrosivo ‘tutto esaurito’.
Torniamo però a “Para Bellum”, titolo più che azzeccato visto il periodo – diremmo quasi scontato, purtroppo. Aldilà dell’intestazione e della sua maestosa copertina – i gusti sono gusti, e a noi l’ennesima opera di Eliran Kantor garba parecchio – rivolgiamo l’interesse principale, come giusto che sia, al suo contenuto musicale.
In questo senso, il gruppo guidato da Chuck Billy era reduce dall’ultimo “Titans Of Creation”, pubblicato cinque anni orsono, il cui difetto, al netto della perfezione stilistica (marchio di fabbrica della band, su questo non ci piove), era la carenza di una vera e propria hit che si stampasse in testa, che ci permettesse di fischiettarne il riff, od il refrain.
Ed invece, constatata, per l’ennesima volta, la sublime preparazione tecnica di tutti gli interpreti, una certa assuefazione sonora aveva preso il sopravvento, etichettando “Titans” come un buon album e nulla più. Un epiteto, se vogliamo calcare la mano, che potremmo affibbiare anche ad altri dischi del recente passato, i quali, pur rasentando l’impeccabilità compositiva, non sono riusciti ad ottenere il marchio di ‘disco da ricordare’.
Il dubbio nei confronti di “Para Bellum” era dunque lecito: consapevoli che ci saremmo trovati di fronte ad una nuova lezione di stile, sarebbero stati in grado i Testament di offrirci qualcosa di più godereccio? Ebbene, dopo innumerevoli ascolti, la risposta è fortunatamente positiva.
Esperienza al servizio del divertimento: è questa la sensazione che regna intorno ai dieci brani contenuti nel nuovo album, per un totale di cinquanta minuti assolutamente scorrevoli. Riunendo in un sol colpo le molteplici sfaccettature del proprio sound, sciorinate ormai da oltre trentacinque anni, Chuck Billy e compagni hanno semplicemente prodotto un disco dove passione fa rima con accessibilità ed headbanging.
C’è un po’ di tutto, in “Para Bellum”, comprese alcune chicche (le hit di cui parlavamo poco fa) che gli permetteranno di rimanere nelle vostre orecchie per diverso tempo, senza finire sul temibile scaffale una volta terminati i primi due/tre passaggi stereofonici di rito.
Il primo botto, manco a dirlo, arriva in apertura. Se vi siete mai chiesti come suonerebbe un brano black metal firmato Testament, “For The Love Of Pain” è la risposta ideale alla vostra domanda. I growl di Chuck, lo scream di Eric, il lavoro chirurgico e leggiadro del nuovo batterista Chris Novas (autore anche del testo), i riff di Peterson (rieccolo) e Skolnick, con tanto di picking zanzarosi, intarsiando una melodia sinistra e malinconica, vi faranno rizzare i capelli. Ma sono davvero i Testament? Sì. Un brano inatteso che rende bene l’idea di come la band di San Francisco abbia deciso di spiazzare e spaziare, andando oltre il classico brano tritaossa. Opener mastodontica, che ci sbatte in pieno volto la mole furiosa di energia del ventisettenne Novas, il quale ha decisamente pigiato il piede sull’acceleratore, per la felicità dello stesso Peterson.
Il secondo motivo che vi porterà ad apprezzare ancor di più “Para Bellum” si intitola invece “Meant To Be”. Già in passato i Testament avevano scritto delle ballad: da “The Legacy” a “Return To Serenity” sino alla recente “Cold Embrace” – tutte meritevoli, per carità, tuttavia questa volta la mano di Skolnick ha colpito letteralmente nel segno, costruendo una canzone semplicemente perfetta. Tra i passaggi mistici di una chitarra acustica, la voce pulita e armoniosa del capo indiano Billy e gli stacchi più rocciosi e ritmati, ecco il tocco artistico che non ci si aspetta, con l’inserto di archi orchestrati dal violoncellista Dave Eggar a rendere ancor più sublime – e perché no? – radiofonico il brano. Esso cresce con il passare dei minuti, acquisendo forza ed emozione prima dell’esplosione definitiva in sede di refrain; se siete particolarmente sensibili vi suggeriamo una confezione di fazzoletti di carta.
Tra le due canzoni, troviamo invece i singoli che hanno anticipato l’uscita del nuovo album: prima la tempestosa “Infanticide A.I.” la quale, senza il video a corredo, risulta più fruibile e soprattutto ancor più incisiva; quindi la classica “Shadow People” la cui unica pecca è quella di rimanere stabilmente sul piede di guerra senza mai scendere ufficialmente in campo, lasciando così un pizzico di amaro in bocca…nelle orecchie dell’ascoltatore.
Si parlava di varietà, ed un’ulteriore testimonianza l’abbiamo con “High Noon”, contraddistinta da un incedere quasi blues al quale si alternano roboanti accelerazioni death, scandite dall’ugola di Chuck, in questo caso ancor più cavernosa.
A seguire, riportandoci direttamente al sempre acclamato “The Gathering”, ecco “Witch Hunt” (scritto da Chuck insieme all’amico Steve “Zetro” Sousa), brano dalla doppia identità (violenta e micidiale la prima parte, più ariosa la seconda), su cui si esalta ancora una volta il nuovo entrato in formazione (Novas), scagliandosi come un treno contro il proprio drumkit. Una sorta di “For The Love Of Pain” parte due, meno melodica ma sicuramente più distruttiva.
La tensione accumulata dai due pezzi si affievolisce grazie ad un tripletta dove la classe thrash della band americana trova vie più malleabili per scuotere la colonna vertebrale del metallaro di turno: la rockeggiante “Nature Of The Beast” (puntando il dito nei confronti del gioco d’azzardo con un simpatico rimando all’ace of spades dei Motörhead) anticipa la profonda “Room 117” in cui i Testament si travestono (bene) da Megadeth, permettendo quindi ad “Havana Syndrome” di chiudere uno slot di brani dove la maestria dei cinque musicisti sfoggia il proprio lato più melodico ed orecchiabile.
A chiudere ci pensa la title-track, forse leggermente meno ispirata a nostro giudizio rispetto alle tracce che l’hanno preceduta, ma altrettanto roboante: i preparativi per la guerra hanno comunque trovato il tassello decisivo.
Premiato da una produzione che ha giovato a tutta la strumentazione del caso (quindi senza suoni plasticosi), il nuovo lavoro dei Testament ci ripresenta un gruppo in piena forma, che ha sicuramente giocato sulla pluridecennale esperienza, aggiungendo quel pizzico di furbizia melodica utile a rendere “Para Bellum” un disco potente e dal piacevolissimo ascolto.