Dopo I sorrisi non fanno rumore (Bompiani), Enrica Tesio torna in libreria parlando di famiglie; la sua, in particolare.

Nel nuovo romanzo, Cose che ti dico mentre dormi, l’autrice torinese trasporta infatti lettrici e lettori nell’ora della giornata più segreta, quella notturna. Quando la casa si fa silenziosa e tutti dormono, una donna veglia e posa sui suoi cari i suoi pensieri, attraverso i discorsi che rivolge alla madre che si è addormentata per sempre, all’incrollabile papà professur, alla figlia che si avvia a diventare donna, al figlio in piena adolescenza, al suo grande amore, a un’amica che la vita ha portato lontano.

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E, con i suoi discorsi, arriva a parlarci anche di sé, di quella ragazza cresciuta che però si sente un’eterna principiante, che affida alla notte la sua voce, mentre ascolta chi ama respirare e ne contempla il sonno trovando, finalmente, lo spazio per parole che alla luce del sole sono difficili da pronunciare.

Dopo aver parlato della stanchezza, la scrittrice (che ha anche scritto delle riflessioni per il nostro sito) esplora dunque il mondo delle malinconie e delle tenerezze, i momenti della verità sussurrata nel buio dentro cui ci si può rivelare pienamente, operando come una Penelope al contrario: invece di tessere di giorno e disfare di notte, lei cerca “il bandolo della matassa che il giorno ha il vizio di mandare a rotoli“. Nel testo anche sei ninne nanne, una per ogni età della vita.

Cose che ti dico mentre dormi di Enrica Tesio

 

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Ninna nanna dell’adolescente

Che di giorno ti insulta e di sera si pente

Ripete la nenia non è colpa mia

Ma si cresce sbagliando, non c’è un’altra via.

 

Ninna nanna di noi genitori

Che preghiamo l’arrivo di tempi migliori

Giochiamo a chiamarli adolescemi

Siamo barche nel bosco, per di più senza remi.

 

Ninna nanna dei corpi mutanti

Abbasso i neuroni, con gli ormoni avanti!

È il continuo oscillare dell’adolescenza:

Tra il non valgo niente e l’onnipotenza.

 

Ninna nanna delle ore nel bagno

Con il cellulare fedele compagno

Oltre a firme su scarpe e sui vari accessori

Lui ha anche le chiappe griffate Ginori.

 

Ninna nanna dei tu dove sei?

Che quando gli scrivi ti risponde okay.

E a casa lo aspetti, occhi aperti, per ore

Ovunque lui vada si porta il tuo cuore.

 

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Ninna nanna dei lascia che sia

Ci vuole pazienza e un po’ di ironia

È che mettono ali alle nostre radici

Per andare nel mondo, non per farci felici.

 

Ninna nanna delle cose da niente

Che sussurro di notte al mio adolescente

E ogni sera mi trovo, nel buio, a implorare

Figlio, ora dormi, che ti devo parlare.

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Quando eri bambino aspettavo che tu dormissi per ritrovarmi. Al tuo sonno corrispondeva il mio vivere, lo scrivere. Oggi aspetto che tu dorma per ritrovare il bambino che eri. Schiudi le labbra e, di tanto in tanto, sfiati piano in un rumore gorgogliante che ricorda il canto di un gatto di fronte a un insetto. La mareggiata dell’adolescenza a tratti si ritrae e lascia emergere i lineamenti dell’infanzia, la tua essenza bambina, le piccole efelidi sugli zigomi, il naso dritto, la guancia ancora piena, il torso nudo implume. Hai sempre caldo.

Quando finisce l’infanzia? Quando l’immaginazione chiede aiuto alla realtà. All’inizio il bambino si piazza davanti alla porta, Biglietto, ordina, e tu tiri fuori dalla tasca un lasciapassare immaginario che gli porgi. Lui lo prende e ti dà il permesso di andare. In poco tempo il biglietto immaginario non basta più, serve il gesto, ha bisogno che tu batta la mano sulla sua. E ti fa passare. Alla fine, vuole un pezzo di carta qualsiasi, uno scontrino o un involucro di caramella. In ultimo pretende un vero biglietto del tram usato, perché il gioco sia credibile. Quando il confine tra il vero e il sognato si fa sottile, da quelle parti si smette di essere piccoli. O forse quando, arrivando in spiaggia, il

bambino non vede più il mare come un grande compagno di giochi, fa passare del tempo prima di tuffarsi, consapevole che il mare non andrà da nessuna parte, è lì da sempre e per sempre, non solo per lui ma per tutti. O forse quando la mattina di Natale preferisce godersi mezz’ora di sonno in più invece di correre a scartare i regali. O quando smette di essere insofferente alle giacche d’inverno, quando smette di vedere ogni ingresso in un luogo chiuso come un’occasione per togliere strati, spogliarsi. Quando non piange perché gli vuoi mettere il cappottino sul costume di carnevale alla sfilata dei carri. Quando il bambino comincia a dichiarare il freddo è meno bambino. La realtà può essere molto rigida, almeno dieci gradi in meno rispetto all’immaginazione.

Tu hai ancora caldo. Solo sul divano ti attesti sul meridiano di Helsinki e lotti con tua sorella per la supremazia sulla coperta, bisogna imbozzolarsi, nemmeno un centimetro del corpo deve restare a contatto con l’esterno. Di notte invece torso nudo e boxer, cosa che prima ti faceva assomigliare a un piccolo teenager, mentre ora ti fa assomigliare a un teenager piccolo. Magie del sonno.

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Nel 2010, anno della tua nascita, spopolava un librino intitolato Fate la nanna. La carboneria delle madri se lo passava di mano in mano bisbigliando: Leggi, applica il metodo e mi ringrazierai. Quell’imperativo fate, seppur ammorbidito dal tenero nanna, mi insospettì da subito. Chiunque abbia avuto a che fare con un neonato sa che è lui a comandare e non il contrario, un neonato è una piccola accecante supernova di bisogni e richieste. Nella prima fase della vita non siamo noi genitori a educare voi a essere figli, figli si nasce infatti non si parla di istinto filiale, mentre si sono inventati l’istinto materno per convincerci che madri si è per natura. Non è vero, siete voi a educare noi a essere genitori, ci educate, ci seducete e ci conducete, tre parole che hanno in comune la stessa radice latina ducere, bisogna farsi portare. È semplice ma le cose semplici sono le più complicate, tipo cucinare le uova strapazzate.

Il sottotitolo di Fate la nanna avrebbe dovuto essere fateli piangere. Il famoso metodo Estivill, autore del librino carbonaro, si basava sull’assunto che i bambini fossero manipolatori, gli adulti dei pappamolle ricattabili e il pianto fosse lo strumento che i piccoli passivi aggressivi avevano a disposizione per fottere il cervello dei pappamolle ricattabili. Il metodo prevedeva pertanto che, una volta giunta l’ora di dormire, bisognasse riporre il subdolo infante, lasciarlo nella culla e poi guardarlo disperarsi, prima in presenza, in seguito con allontanamenti cadenzati. Il neonato a un certo punto si sarebbe stancato, avrebbe riconosciuto l’autorità e i propri errori, avrebbe fatto ammenda e si sarebbe addormentato restituendo ai genitori la loro indipendenza insieme a lunghe nottate di meritatissimo riposo. Grazie al ciuccio, dico oggi, il bambino si sarebbe addormentato sì ma per disperazione, lasciandosi andare a un sonno rassegnato e impotente.

Nel 2010 non lo dissi, non subito almeno. Nel 2010 l’ostetrica mi aveva passato il tuo corpicino e ti avevo preso all’amo del mio indice infilato per errore nella tua bocca sdentata, tu giustamente piangevi, io ridevo e l’infermiera con il suo accento sardo ribadiva l’esattezza della metafora ittica: “Tre chili e otto, eia che bella ricciòla!” Traboccavo di gioia e speranza. Mia madre, tua nonna, era solita ripetere che avrebbe voluto tenere me e Sorella dentro la pancia per sempre, meno esistevamo e più stavamo al sicuro, come certi progetti che non portiamo a termine o certi amori che non viviamo. Per me era il contrario: non vedevo l’ora di darti al mondo. I figli si possono crescere con l’amore o con la paura, se fai entrare la paura quella intorbidisce tutto, sporca ogni cosa, l’amore per fare il suo corso deve avere una parte di incoscienza e anche di presunzione. Forse tutta l’angoscia con cui mi aveva cresciuta mia madre aveva creato in me gli anticorpi per combatterla. Mi sentivo coraggiosa, ero innamorata.

(continua in libreria…)

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