di
Giusi Fasano

Il precedente (preoccupante) del disarmo di Hezbollah e il ruolo di Qatar e Turchia

DALLA NOSTRA INVIATA
TEL AVIV – Si fa presto a dire pace. Ma la fine della guerra non è la fine del conflitto, per dirla con il cardinale e patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa. E dunque anche nella migliore delle ipotesi, e cioè che il piano Trump arrivi a una stretta di mano fra i promotori e Hamas, restano le mille incognite sulla sua attuazione e, soprattutto, sugli scenari futuri.
In una ipotetica Gaza senza più bombe né macerie né ostaggi nascosti nei tunnel, chi potrà mai garantire che i germogli velenosi seminati da Hamas non attecchiscano?

Dopo il 7 ottobre Israele ha giurato a se stesso che non cadrà mai più nel tranello di una pace apparente. Ma il solo modo per farlo è mantenere una presenza militare sul lungo periodo, disarmare Hamas e affidare la Striscia all’amministrazione e al controllo di Paesi amici (e se non proprio amici comunque Paesi che hanno dato il consenso ai 20 punti del piano di pace).
Ma questi punti — tutti e tre, com’è noto — sono gli stessi sui quali, da quel che ne sappiamo fino a oggi, Hamas non ha nessuna intenzione di cedere. Se gli ostaggi saranno davvero liberati tutti e presto, alla fine (come Trump ha lasciato intendere) qualche concessione sarà possibile. Ma le posizioni dei due nemici sono ancora lontanissime.



















































La consegna delle armi, per dire, finora ha ricevuto come risposta qualcosa di simile a «non ci pensiamo nemmeno. Le restituiremo quando lo Stato della Palestina avrà il suo esercito». E allora come evitare che si ripeta con Hamas quello che è successo con Hezbollah in Libano dove, anche dopo l’accordo sulla tregua, i miliziani hanno rifiutato la consegna delle armi?
Lì la guerra con Israele cominciò il giorno dopo l’attacco di Hamas da Gaza. «Raccoglievamo la frutta in giardino con i giubbotti antiproiettile» raccontano gli abitanti dei kibbutz israeliani sul confine. Razzi, missili, colpi di mortaio ogni santo giorno, con le Forze di sicurezza israeliane che all’inizio hanno risposto in modo limitato, poi con una potenza di fuoco sempre più grande. Fino all’eliminazione del capo del movimento islamista, Hassan Nasrallah, e all’operazione del Mossad per colpire migliaia di suoi miliziani con lo scoppio in contemporanea dei loro cercapersone. Novembre 2024: accordo per il cessate il fuoco e individuazione di una zona cuscinetto sgombra dalla presenza di Hezbollah che però, ancora oggi, rifiuta di consegnare le armi malgrado le richieste reiterate del governo libanese.

Finirà così anche per Hamas con il rischio che i combattenti, nel tempo, si riorganizzino e riprendano forza? E inoltre: è davvero possibile escludere il movimento fondamentalista dal futuro della Striscia? La risposta a queste domande passa dal ruolo del Qatar, attore determinante di questa partita mediorientale.

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Il Qatar e la Turchia (anche Erdogan sostiene il piano Trump) da due anni sono i mediatori che dialogano con Hamas. Il presidente Usa li ha coinvolti, assieme a tutti i Paesi arabi, nel suo piano di pace. E ha siglato un patto di ferro con il Qatar che in sostanza dice: vi difenderemo da chiunque vi attacchi sul vostro territorio. Una clausola che impedisce a Israele di organizzare attacchi per uccidere gli uomini di Hamas (come quello fallito di un mese fa) e che pare offrire loro una via di fuga dorata e sicura se sceglieranno l’esilio fuori dalla Striscia. Il Qatar li proteggerà anche se subissero singoli attacchi dal Mossad?
Dalle pagine del Times of Israel Yonah Jeremy Bob ragiona su tutto questo scenario e dice che «la domanda è se gli Usa e il mondo permetteranno i raid dell’Idf e gli attacchi chirurgici contro i terroristi di Hamas (come hanno fatto con Hezbollah) che in silenzio cercano di infrangere le regole del cessate il fuoco e tentano di riprendersi il potere». La risposta per adesso è in sospeso. Arriverà se e quando l’accordo sarà definitivo.

7 ottobre 2025 ( modifica il 7 ottobre 2025 | 11:18)