“L’ha visto da solo o in compagnia?”, mi chiede Richard Gere all’inizio della nostra intervista su “La saggezza della felicità”, il film documentario sul Dalai Lama, di cui è un produttore esecutivo.
“L’ho visto su un grande schermo, ma da solo”, gli rispondo nel nostro collegamento audio-video a distanza.
“Ha perso un’opportunità, perché con questo film succede una cosa interessante”, mi fa notare la star di Hollywood, attivista per i diritti umani e di credo buddista, ”Io ho partecipato a proiezioni in sala con gruppi di persone in diversi Paesi europei e alla fine di questo film emerge un senso di comunità, di possibilità di creare un mondo dove siamo aperti ad amore, compassione, semplice saggezza che riguarda chi siamo e come stiamo in questo mondo. Per me è una gioia ed è una speranza che si veda questo film nei cinema insieme ad altre persone, in modo da sentire quel senso di comunità che si crea dopo aver passato un’ora e venti minuti con qualcuno come il Dalai Lama.”
È successo anche a lei quando l’ha visto per la prima volta?
“I registi mi portarono una prima versione del film circa un anno e mezzo fa. Mia moglie si sciolse in lacrime, dicendo che era molto commovente. Io lo trovai stupendo e mi vennero in mente alcune idee per poterlo migliorare.”
‘La saggezza della felicità’, diretto da Barbara Miller, Philip Delaquis e Manuel Bauer è un lungo tu per tu con il Dalai Lama, un saggio e magnetico novantenne, somma guida spirituale del Buddismo. Attraverso un dispositivo inventato dal documentarista americano Errol Morris, durante le riprese l’intervistato vede la faccia dell’intervistatore mentre parla con lo sguardo rivolto all’obiettivo. Si crea quindi un contatto visivo virtuale tra i due interlocutori, con il risultato che ogni spettatore ha l’impressione che l’intervistato guardi proprio lui. E che impressione vedere lo sguardo dritto del Dalai Lama mentre ti spiega la sua affascinante ricetta per la felicità, per la pace, per la compassione universale!
Sono rimasto impressionato da come il Dalai Lama solo con la sua voce e i primi piani sia capace di tenere l’attenzione dello spettatore per tutta la durata del film. Non trova?, chiedo a Richard Gere.
“Sì, è unico”, ribatte lui, “mi ha colpito anche il materiale d’archivio. Ce n’è molto che non si era mai visto prima. Poi c’è una scelta fatta dai registi: l’unica voce che si sente nel film è quella del Dalai Lama: sia quella dell’intervista che quella raccolta in diversi luoghi e momenti in India e in Europa.”
Richard Gere, qual è stato il suo personale contributo al film?
“Ciò che desideravo era non mettere il Dalai Lama su un piedistallo. Anche il modo in cui prepariamo la sua intervista, quando entra nella stanza, si siede e viene preparato con un po’ di cipria prima di parlare, era secondo me importante per mostrarlo come un essere umano, non come una specie di mito al di sopra di tutto. Lui è come noi, è la parte migliore di noi. Ho voluto inoltre che i punti riguardanti il Buddismo fossero chiari, perché i registi non sono buddisti ed alcune cose potevano risultare confuse. Sono intervenuto anche sulla musica. Il primo tentativo di partitura era eccessivamente sentimentale, così, in accordo con i registi, ho coinvolto un altro compositore.”
Il Dalai Lama nel 1989 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Ora il presidente Trump sostiene di meritare il premio Nobel per la pace, che verrà annunciato il 10 ottobre. Lei crede che lo meriti?
“Ero lì con Sua Santità quando lo ricevette ad Oslo. Anche se era grato per aver potuto fare il suo discorso, non credo che avesse compreso la reale importanza e quanto la sua stessa situazione e quella del Tibet sarebbero cambiate. Quell’occasione concentrò su di lui molta più attenzione di quanta ne avesse mai avuto. Cambiò non poco il suo mondo e gli diede l’opportunità di parlare sulla natura della mente, dell’amore, della compassione e, come dice egli stesso, su cosa la semplice gentilezza significhi per noi stessi e per il mondo che ci circonda. Certamente abbiamo visto vincitori che meritavano chiaramente i premi Nobel. Avevano lavorato sul terreno in situazioni difficilissime per tutta la vita e senza egoismo. Pensare che quest’uomo strano, molto strano, Donald Trump possa ricevere un Nobel per la pace è uno scherzo.”