di
Federico Fubini
Le borse e le quotazioni dell’euro sul dollaro mostrano che molti mettono in conto l’effetto del «deal» di Turnberry: una frenata dell’economia europea
I dazi ci sono, l’accordo invece no. Donald Trump definisce la stretta di mano con Ursula von der Leyen «il più grande deal mai concluso», ma con lui niente è mai davvero «concluso» e in particolare non il costrutto uscito domenica dalla Scozia. Già l’affidabilità del tycoon ha un problema in sé: al primo mandato per esempio Trump fece saltare l’accordo commerciale con Canada e Messico, per sostituirlo con un altro; poi al suo ritorno alla Casa Bianca ha fatto saltare anche l’altro.
E con i Paesi del Nordamerica gli Stati Uniti avevano stretto un trattato formale. Con l’Unione europea invece Trump per ora ha qualche dichiarazione pubblica non particolarmente in linea con quelle della stessa von der Leyen e già questo rischia di diventare un problema per l’economia: se le imprese italiane, francesi o tedesche si convincono che l’accordo scozzese è scritto sull’acqua e può saltare in ogni momento — con minacce di altri dazi a seguire — proseguiremo nell’incertezza che il «deal» di domenica avrebbe dovuto risolvere; dunque le stesse imprese europee continueranno a investire di meno.
E purtroppo un’occhiata al poco che per ora si sa non rafforza la credibilità dell’intesa. In cambio della concessione di dazi appena al 15% anziché al 30% su gran parte dell’export verso l’America — contro dazi di Bruxelles quasi a zero — l’Unione europea si impegna a comprare prodotti energetici statunitensi per 750 miliardi di dollari. In tre anni. Ha senso? L’analista GaveKal Research calcola che l’intero export mondiale di gas e petrolio degli Stati Uniti vale 141 miliardi di dollari l’anno ai prezzi attuali; l’Europa non arriverebbe a spendere neppure duecento miliardi anche se comprasse dagli Stati Uniti reattori modulari e combustibile nucleare, mentre il campione americano del settore Westinghouse già fatica a tener dietro agli ordini nel proprio Paese. Ma vediamo la stessa «promessa» di von der Leyen dall’Italia: per fare la propria parte nel «deal», il Paese dovrebbe spendere 30 miliardi di euro l’anno per comprare il gas solo dall’America e solo in forma liquefatta; tuttavia abbiamo già vari contratti pluriennali o pluridecennali aperti Algeria, l’Azerbaigian e Norvegia, quindi dovremmo comunque pagare i fornitori di quei Paesi anche se non ritirassimo il loro prodotto.
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In sostanza, questa parte dell’accordo fra Trump e von der Leyen non sta in piedi. Quanto agli investimenti discussi per 600 miliardi di dollari delle imprese europee negli Stati Uniti, in proporzione già l’Italia dovrebbe raddoppiare il ritmo annuo degli investimenti esteri per concentrarli tutti in un solo Paese. Neanche questo sta in piedi. Il presidente degli Stati Uniti così ha già in mano gli argomenti per sostenere che l’Europa non fa la propria parte e tornare a minacciare ritorsioni, non appena lo trovi utile. I mercati finanziari invece ieri sono parsi credere all’altro impegno di von der Leyen sul campo da golf di Trump a Turnberry, quello di un aumento di commesse della difesa a imprese americane. Quasi tutti gruppi europei del settore — l’italiana Leonardo, la francese Thalès, la tedesca Rheinmetall, il consorzio Airbus — sono caduti bruscamente in borsa perché gli investitori ora pensano che quelle aziende avranno meno ordinativi dai loro governi; invece nelle stesse ore sono saliti bene i titoli dei loro concorrenti americani — Lockheed Martin, Raytheon-Rtx, Northrop Grumman, Boeing — per ragioni uguali e contrarie: ci si aspetta che i soldi dei contribuenti europei alimenteranno più ricerca, più tecnologie e più lavoro specializzato in America e meno in Europa.
Ma quel che vale per la difesa, vale in generale per gran parte dei settori più strategici in Europa. Il farmaceutico, per l’Italia una decina di miliardi di euro all’anno di export negli Stati Uniti, resta avvolto nella nebbia quanto ai dazi che subirà. E le borse di Francoforte e Parigi ieri sono scivolate — dopo il sollievo iniziale per l’«accordo» — non appena una seconda occhiata al patto di von der Leyen con Trump ne ha rivelato la fragilità. Particolarmente male quasi tutto l’intero settore dell’auto, che pure dovrebbe beneficiare di tariffe ridotte dal 25% al 15%. Ma soprattutto ieri l’euro è venuto giù: meno 1,27% sul dollaro, uno spostamento enorme in un giorno per essere fra le due più grandi monete del mondo.
Significa che molti mettono in conto l’effetto reale delle precarie intese di Turnberry: una nuova frenata dell’economia europea. Gilles Moec di Axa stima mezzo punto di prodotto di meno e per l’Italia comporterebbe il ritorno a una crescita zero; Nicola Mai di Pimco pensa che la perdita di reddito sarà di un punto e per l’Italia comporterebbe recessione, non il massimo per un’economia tornata solo nel 2023 ai livelli del 2007. Forse è tempo di chiedersi come scuoterci di dosso questa debolezza cronica, piuttosto di sperare ancora nella saggezza di Trump.
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29 luglio 2025 ( modifica il 29 luglio 2025 | 08:45)
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