di
Paolo Tomaselli

L’allenatore del Marsiglia in esclusiva: «Mi sento un figlio di Milanello e del Milan, quello vero: il giorno dopo il primo contratto, ero in filiale a firmare il mutuo per comprare la casa ai miei genitori. Klopp ha ragione: è un lavoro pesante».

Roberto De Zerbi ospite in Sala Albertini, il cuore del Corriere della Sera. Come lo spogliatoio è il cuore del suo Marsiglia. La connessione non è banale: nelle stanze dove entra, RDZ lascia il segno.

Nel recente documentario sul Marsiglia lei urla ai giocatori una cosa insolita: «Per me il calcio è riscatto sociale». Che storia c’è dietro?
«È la prima volta che ne parlo: c’è un momento preciso della mia vita dove inizio a fare calcio per sistemare la mia famiglia. Passo dall’oratorio al Lumezzane e poi al Milan, fra il 1992 e il 1994, in coincidenza con la crisi economica in casa: siamo costretti a vendere la fabbrica di tappetini e passiamo anni molto difficili. A quel punto non scherzavo più. Uscito dalla Primavera, il giorno dopo la firma del primo quinquennale col Milan, ero in filiale a firmare il mutuo per comprare la casa ai miei genitori. Il calcio per me non è mai stato solo divertimento».



















































Questa tensione emotiva da calciatore le ha pesato?
«Mi ha tolto e dato. Mi nutrivo di quella motivazione: è stata un motore ma anche un freno perché quando sono riuscito a sistemare la mia famiglia ho avuto un down motivazionale. Ma quel modo di vedere il lavoro mi è rimasto dentro, come una spinta».

Dopo la rissa Rabiot-Rowe ha detto che nell’ultimo anno ha abbracciato più volte Adrien che suo figlio Alfredo. E ha aggiunto: «ho perso la famiglia per il calcio». Frasi forti pure queste.
«Ho fatto gli ultimi anni di carriera in Romania, lontano dalla famiglia. Poi ho iniziato ad allenare e mi sono perso l’infanzia e l’adolescenza dei miei figli. Con i giocatori e lo staff cerco un rapporto: se oltre a rispetto e stima c’è anche l’affetto è un mix esplosivo. Cerco una connessione, anche con l’ambiente».

Marsiglia è speciale?
«Sì, come Foggia 10 anni fa: il modo di vivere il calcio è uguale ed è quello che si addice a me. Non so se io sono l’allenatore ideale per loro, ma Marsiglia è il posto ideale per me, per il valore che dà al calcio: tutte le contraddizioni sociali vengono dimenticate per 90 minuti. Lo percepisci».

Quando lei porta i calciatori in ritiro per lavorare sulla «paura» del Velodrome e li fa uscire a correre alle 5 di mattina con il rischio di incrociare i cinghiali, lo fa per farli uscire dalla loro bolla?
«Probabilmente è stata la cosa più bella che ho fatto, quella più vicina a me come persona: ho ascoltato e compreso il malessere dei ragazzi, che in casa non riuscivano a rendere. Ho fatto qualcosa di forte, per farli conoscere tra di loro. E poi ho fatto tre riunioni: in una tiravamo fuori i sentimenti negativi che avevamo al Velodrome; il giorno dopo ogni giocatore ha raccontato i valori in cui si identifica, li abbiamo scritti e appesi; poi abbiamo mostrato un video sui tifosi al Velodrome, per far loro capire chi hanno davanti».

Riuscirebbe a trasferire certi metodi anche in Italia?
«Non faccio l’insegnante di morale, ma voglio trasmettere quello che sono: come uomo, prima che come allenatore. Ed è normale cercare una comprensione reciproca, anche fuori dal campo. Il mio prof di italiano, Eugenio Bonomi, ogni tanto fermava il programma e ci parlava di quello che succedeva fuori di scuola. Se ti vedi tutti i giorni, non puoi parlare solo di 4-4-2».

Da calciatore ha trovato un ambiente che la formasse?
«Il settore giovanile del Milan era una scuola. Maldini, Baresi, Tassotti e tutti quei grandi giocatori mi hanno insegnato l’etica nel calcio, il valore dell’allenamento, il fatto di allenarti più forte dopo una vittoria, il rispetto dentro a un gruppo, a partire dagli orari. Io mi sento un figlio di Milanello, del Milan, quello vero».

Un’etichetta velenosa: De Zerbi allena per sé stesso.
«L’ho già dimostrato tante volte che non alleno per me stesso, anzi. Amo i giocatori forti e li voglio. E credo che il calciatore conti più dell’allenatore per i risultati. Ero un numero 10: non potrei mai togliere valore al calciatore».

Seconda etichetta: De Zerbi è troppo matto per un top club. A Marsiglia ha chiamato Giovanni Rossi «per limare il mio difetto nei rapporti col club». Lo ha limato?
«Non lo so. Credo di non investire tanto tempo nel rapporto con i dirigenti. Ma a Marsiglia con il presidente Longoria e il direttore Benatia ho costruito forse il rapporto più bello di sempre».

Cita spesso la frase di Roby Baggio: «Preferisco affogare nell’Oceano che in una pozzanghera».
«Non lo dico per moda, ma perché riporto una parte di me dentro al campo: mi piace chi determina, chi si prende le responsabilità, chi rispetta le qualità che ha. Meglio essere fischiato per un errore, che nascondersi nella massa».

Battere il Psg e perdere in quel modo (con due rigori contro) al Bernabeu ha fatto fare un clic al Marsiglia?
«Soprattutto la sconfitta con il Real, perché abbiamo giocato con coraggio. La vittoria col Psg mancava da anni ed è stata un evento, ma per la classifica ora conta poco. Abbiamo fatto un grande mercato e siamo saliti di livello».

Il «Dezerbismo» cresce.
«Ho buona autostima, ma mi sento a disagio perché 10 anni fa ero in D e non mi vedo come vedono gli altri. Di sicuro ho sempre avuto le idee chiare su come volevo che la mia squadra stesse in campo. C’è chi mi ama, chi mi odia e non sono predisposto a farmi capire e conoscere da tutti. Ma il calcio ha preso una direzione del gioco di un certo tipo».

Un esempio?
«Trent’anni fa non si difendeva uomo a uomo a tutto campo e per chi impostava era più facile passare la palla. Oggi spesso l’unico libero è il portiere, che deve giocarla per forza. È una banalità, ma a volte andare indietro è la soluzione giusta per andare avanti».

È stato molto vicino al Bayern prima del Marsiglia?
«Mi pare una mancanza di rispetto parlarne, ma qualcosina c’è stato. Col Milan? Mai».

Le manca l’Italia?
«Sì, sono italiano e seguo tantissimo il campionato. Ma sto bene anche all’estero».

La crisi c’è: che ne pensa?
«Solo in Italia nei settori giovanili la sconfitta è vissuta come una tragedia. E i talenti spesso hanno una maturazione tardiva: vanno aspettati».

Coi talenti difficili che fa?
«Di solito hanno una sensibilità spiccata. L’allenatore deve aiutarli e capirli, ma il primo passo deve farlo il giocatore. Il mio rimpianto più grosso è l’uruguaiano Schiappacasse, al Sassuolo. Non sono riuscito a tirargli fuori niente, poi ho saputo dell’arresto per detenzione di arma da fuoco».

Pensa solo al calcio?
«No, sono molto attento a tutto ciò che succede e non solo perché ero in Ucraina quando scoppiò la guerra. Ma la verità è che il tempo per il resto — come ha raccontato Klopp, che stimo forse più come uomo che come allenatore e ho detto tutto — è molto poco».

Sente di poter crescere?
«Faccio fatica a godermi qualsiasi cosa, non sono mai contento. Allenare mi piace tanto — l’ultimo mese è stato uno dei periodi in cui mi sono divertito di più — ma bisogna capire quanto potrò allenare ancora. Come lavoro è pesante, Klopp ha ragione».

È una provocazione?
«No. Io nel calcio non devo starci per forza. Ma ci voglio stare a modo mio, ad esempio riuscendo a tirare sempre fuori le qualità dei giocatori».

A volte si dà troppo peso agli allenatori?
«Sì. Però allora quando va male non deve essere solo colpa nostra. In area, il d.s e il presidente contano più dell’allenatore. Poi è chiaro che il tecnico deve racchiudere tante caratteristiche, di 7-8 lavoratori. E un grande allenatore deve essere altruista, generoso».

Fino ad aprile, i suoi non erano mai stati allo stadio.
«Perché gli allenatori sono spesso insultati e mio papà è più caldo di me… Anche i miei figli non scherzano: a Roma-Brighton non sono venuti».

Una rissa come quella Rowe-Rabiot l’ha mai vista?
«Mai. E io vengo dalla strada. Ma ci ha fatto bene, perché la società ha scelto di fare a meno di Rabiot, che non ha voluto fare un passo indietro».

Luis Henrique riuscirà a sfondare all’Inter?
«La competizione è alta, ma lui ha caratteristiche diverse. Ogni tanto gli dicevo che giocava in ciabatte: deve sfruttare di più il suo potenziale».

Come vede l’ammucchiata in testa alla serie A?
«Sono contento per Gasperini, che all’Inter pagò colpe non sue: un po’ tifo per lui, perché gli avevano dato l’etichetta che non poteva sedersi su una grande panchina. E invece può stare ovunque. Il Napoli è più che vivo, l’Inter è forse ancora la più forte, il Milan sta giocando bene. È bello vedere tanta competitività».

A chi deve dire grazie per la sua carriera?
«A tante persone. Da mio padre che mi ha portato allo stadio, a mia mamma laureata in Lettere che mi ha obbligato a studiare. Poi il Milan. E da allenatore, tutti i miei giocatori, perché attraverso di loro viene fuori il mio pensiero. Il succo del nostro lavoro è questo».

9 ottobre 2025