L’8° Rapporto GIMBE fotografa un SSN in affanno strutturale. Dopo anni di pandemia e inflazione, il finanziamento pubblico non tiene il passo dei bisogni, cresce la spesa privata, si allargano i divari territoriali e il personale sanitario è allo stremo. Dietro i numeri, una domanda: riuscirà l’Italia a garantire cure pubbliche, eque e universali?

Il Fondo sanitario nazionale è insufficiente
nino cartabellotta

Nino Cartabellotta, presidente fondazione Gimbe


Negli ultimi tre anni, il Fondo sanitario nazionale (FSN) è cresciuto nominalmente, da 125,4 miliardi nel 2023 a 136,5 nel 2025, ma il valore reale si è eroso sotto la spinta di inflazione e rincari energetici.

In rapporto al PIL, il finanziamento pubblico scende dal 6,3% del 2022 al 6,1% del 2025. Tradotto: meno risorse effettive per un sistema con bisogni crescenti.

Le proiezioni della manovra economica non lasciano margini di ottimismo. Entro il 2028, il rapporto FSN/PIL potrebbe calare al 5,8%, mentre i fabbisogni sanitari tendenziali indicano uno scarto fino a 13 miliardi di euro.

Il risultato? Regioni costrette a scegliere fra due strade impopolari: aumentare le tasse locali o tagliare servizi ai cittadini.


Spesa sanitaria e disuguaglianze

Nel 2024 la spesa sanitaria complessiva italiana ammonta a 185,1 miliardi di euro. Di questi, 137,5 miliardi sono pubblici (74,3%) e 47,7 miliardi privati, di cui ben 41,3 miliardi direttamente a carico dei cittadini (out-of-pocket).

In altre parole, quasi un euro su quattro per la salute è pagato di tasca propria. L’86,7% della spesa privata non è intermediata da fondi o assicurazioni, segno che la sanità integrativa non sta svolgendo un vero ruolo di compensazione.

Le conseguenze sono evidenti: 5,8 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie nel 2024, in 3 milioni per motivi economici e in 4 milioni per le liste d’attesa troppo lunghe. La forbice si allarga fra chi può permettersi la cura e chi deve rinunciare o spostarsi in un’altra regione.


Perché è un problema strutturale 


L’Italia spende meno della media europea in sanità pubblica (in rapporto al PIL e pro-capite), ma più della media OCSE in spesa diretta. Questo spostamento del peso finanziario sui cittadini aumenta le diseguaglianze e riduce la fiducia nel sistema pubblico.


Quando la spesa privata cresce, aumenta anche la frammentazione dei percorsi di cura. L’infermiere, spesso unico punto di riferimento per il paziente cronico o fragile, deve gestire assistiti che alternano pubblico e privato, con scarsa continuità assistenziale e maggiori rischi di inappropriatezza.

Livelli essenziali di assistenza: la frattura Nord-Sud

Nonostante l’entrata in vigore, dal 1° gennaio 2025, del Decreto Tariffe che rende finalmente esigibili le nuove prestazioni ambulatoriali e protesiche, l’aggiornamento dinamico dei LEA è ancora in stallo.

Il monitoraggio 2020–2023 del Nuovo Sistema di Garanzia mostra che solo 13 Regioni risultano adempienti nel 2023, con peggioramenti in otto territori. La geografia dell’assistenza resta diseguale: il Nord adempiente, il Sud in difficoltà cronica.

A peggiorare il quadro, la mobilità sanitaria: nel 2022 i cittadini hanno speso oltre 5 miliardi di euro per curarsi fuori regione, quasi un quarto dei quali in strutture private accreditate. È il segno di un SSN che non garantisce gli stessi diritti di salute da Milano a Palermo.

Una spesa costituzionalmente necessaria

Negli ultimi anni la giurisprudenza ha chiarito un principio fondamentale: i LEA sono spesa costituzionalmente necessaria. In altre parole, non possono essere compressi per esigenze di bilancio.

Una serie di sentenze della Corte costituzionale ha ribadito che la tutela della salute non è un diritto “finanziariamente condizionato”. Le Regioni e lo Stato devono garantire i LEA anche in presenza di vincoli economici, tagliando altre spese se necessario.

Questo orientamento ha un impatto concreto: spinge Governo e Regioni a riconsiderare le priorità di bilancio e a garantire prima i diritti essenziali, poi tutto il resto. Ma serve anche un sistema di monitoraggio trasparente e continuo, che oggi manca.


Il riconoscimento dei LEA come spesa prioritaria implica anche la tutela del personale necessario a garantirli. Ogni livello essenziale, infatti, ha un corrispettivo organizzativo: per assicurarlo servono organici e competenze. La carenza di infermieri mette a rischio non solo i servizi, ma la stessa applicazione del principio costituzionale.


Carenza di personale e crisi infermieristica

La carenza di personale sanitario resta il principale fattore di fragilità del sistema pubblico. Secondo il Rapporto, nel 2023 gli infermieri dipendenti del Servizio sanitario nazionale erano 277.164, pari a 4,7 ogni 1.000 abitanti. Una densità ben lontana dalla media OCSE (9,5) e da quella europea (8,5).

Non solo: in Italia si laureano appena 17,3 infermieri ogni 100.000 abitanti, contro i 45 della media OCSE. Il calo di attrattività dei corsi di laurea in infermieristica è un segnale allarmante: nel 2025/26 il rapporto domande/posti è sceso sotto 1, a 0,9.


Rapporti sbilanciati e professionisti demotivati

Il rapporto infermieri/medici è di 1,3 nel complesso nazionale (2,54 nel perimetro contrattuale Ssn), ma con grandi differenze territoriali: da 1,82 in Sicilia a 3,26 nella PA di Bolzano. A livello OCSE, la media è 2,4.


Le retribuzioni non aiutano: un infermiere ospedaliero italiano guadagna in media 45.434 dollari PPA, contro i 60.260 della media OCSE.

La combinazione di turni insostenibili, bassi salari e limitate prospettive di carriera alimenta l’esodo: molti infermieri scelgono il privato o l’estero. La conseguenza è una spirale che riduce la capacità assistenziale e mina la sicurezza delle cure.

Senza infermieri non c’è prossimità, senza prossimità il PNRR non si realizza.

La crisi infermieristica non è solo un problema di numeri, ma di modello. Il Ssn deve ripensare la presa in carico territoriale, definendo standard minimi di staffing e valorizzando le competenze avanzate. Figure come l’infermiere di famiglia e di comunità sono il cardine del nuovo paradigma assistenziale, ma restano ancora sottofinanziate e frammentate.

PNRR e assistenza territoriale

La Missione 6 – Salute del Piano nazionale di ripresa e resilienza rappresenta la grande promessa di modernizzazione del Ssn. Tuttavia, al 30 giugno 2025, solo il 21% delle Case della Comunità risulta pienamente attivo, con appena 46 sedi dotate di équipe medica e infermieristica complete.

Gli Ospedali di Comunità “attivi” sono il 49,8%, ma in molti casi si tratta di strutture temporanee o ancora prive di personale stabile. La rete di cure intermedie è dunque incompleta, mentre le riforme sul territorio rischiano di restare un guscio vuoto.

Ritardi e asimmetrie

I ritardi non riguardano solo i cantieri. La digitalizzazione (Fascicolo sanitario elettronico, interoperabilità) avanza a macchia di leopardo, il programma antisismico accumula criticità tecniche e amministrative e mancano dati pubblici aggiornati su vari target intermedi.


Liste d’attesa e governance della domanda

La lotta alle liste d’attesa resta uno dei fronti più delicati del Ssn. Il nuovo decreto Liste d’attesa ha introdotto misure innovative, dalla Piattaforma nazionale (PNLA) agli incentivi per l’attività aggiuntiva, ma la sua attuazione procede a rilento.

Al momento, la piattaforma consente solo una visibilità parziale dei dati, senza confronti omogenei tra Regioni e aziende. In assenza di personale sufficiente, molte agende restano sature e i pazienti continuano a rivolgersi al privato, alimentando un circuito di spesa insostenibile.

Per affrontare davvero l’annoso problema delle liste d’attesa, secondo Gimbe, sono fondamentali tre pilastri:

  1. Riorganizzazione delle agende per priorità cliniche reali
  2. Assunzioni mirate per coprire turni e reparti scoperti
  3. Riduzione dell’inappropriatezza prescrittiva, che oggi incide fino al 30% delle richieste

L’infermiere case manager può giocare un ruolo chiave nel governo delle liste, integrando triage clinico e orientamento del paziente. Investire su questa figura significa ridurre tempi, errori e diseguaglianze di accesso.

Sanità privata e accreditata

Nel 2023 le strutture private accreditate rappresentano il 58% del totale censito in Italia. La spesa sanitaria destinata al convenzionato cresce in valore assoluto, ma la quota sul totale scende al 20,8%, minimo storico.

Parallelamente, la spesa diretta dei cittadini verso il privato puro, ovvero strutture non accreditate, è più che raddoppiata dal 2016 al 2023 (+137%). È il segnale di un mercato in espansione, alimentato dalle attese nel pubblico e dalle difficoltà del Ssn.

Una privatizzazione silenziosa

Questo doppio binario genera una nuova disuguaglianza: chi può permetterselo si cura in tempi rapidi nel privato; chi non può, resta in lista o rinuncia. La conseguenza è un progressivo indebolimento del principio costituzionale di universalità.


La crescita del privato modifica anche l’offerta di lavoro: molti infermieri migrano verso strutture private o cooperative, attratti da stipendi leggermente più alti o orari più flessibili. Tuttavia, questa transizione rischia di impoverire il sistema pubblico e frammentare la formazione continua.


Finanziamento e riparto del Fondo sanitario

Negli ultimi anni, la distribuzione del Fondo sanitario nazionale (FSN) tra le Regioni è stata oggetto di diverse revisioni. Dal 2023 il riparto tiene conto di nuovi fattori (mortalità precoce e tre indicatori socio-economici: tasso di disoccupazione, livello di istruzione e indicatori di povertà relativa o deprivazione) ma il 60% della quota resta ancora non pesata per età o bisogni assistenziali.

Il risultato? Cambiano le formule, ma le differenze restano. Nel 2024 la Liguria riceve la quota pro-capite più alta (2.261 €), mentre la Campania è tra le grandi Regioni con la più bassa (2.135 €). Il divario rispetto alla media nazionale (2.181 €) può superare gli 80 euro a persona.


Il nodo Nord-Sud

Questo sistema non intercetta i bisogni legati alla deprivazione sociale, all’età pediatrica o alle aree interne, dove garantire la stessa assistenza costa di più. Così le Regioni con maggiore povertà o dispersione territoriale partono svantaggiate.

Il criterio di riparto deve riflettere i bisogni di salute, non solo i conti della demografia, osserva Nino Cartabellotta, presidente Gimbe. 


Per gli infermieri che operano nelle aree più svantaggiate, il sottofinanziamento cronico significa dotazioni incomplete, mancanza di formazione continua e turni sotto organico. Uniformare il riparto non è solo una questione di equità territoriale, ma di sicurezza professionale.

Il futuro del Ssn

Il quadro tracciato dal Rapporto Gimbe non lascia spazio a illusioni: senza una svolta politica e culturale, il Ssn rischia di non reggere l’urto del futuro. La transizione demografica, la cronicità, la carenza di personale e le nuove tecnologie non si governano con logiche d’emergenza.

Serve un Patto nazionale per la salute che metta in sinergia istituzioni, professionisti e cittadini.
Serve riconoscere il valore strategico del capitale umano, non solo come costo ma come investimento.
E serve una visione integrata in cui la cura non sia solo prestazione, ma relazione, continuità, prossimità.

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