Le Roi protagonista assoluto nella prima serata del Festival dello Sport: “Mi amavano anche gli avversari perché ho sempre rispettato il calcio. Le mie radici italiane? Il vostro Paese lo sto scoprendo ora, da turista”


Francesco Rizzo

Giornalista

9 ottobre 2025 (modifica alle 23:03) – TRENTO

Famiglie con i figli piccoli, signori di mezza età con la maglia bianconera anni 80, tifosi con le foto d’epoca nel cellulare. Michel Platini, tre Palloni d’Oro in bacheca, 70 anni nel giugno scorso, sbarca al Festival di Trento e l’Auditorium Santa Chiara diventa una curva, composta, nostalgica e affettuosa. Le Roi risponde con un sorriso al lungo applauso iniziale e ammette: “Ero simpatico anche ai non juventini? L’importante per me era far divertire il pubblico, non ho mai preso in giro le altre tifoserie, avevo una mentalità diversa”.

ironia—  

Senza rinunciare alla sua ironia (“Cosa non sopporto del vostro Paese? I giornalisti”), Le Roi si racconta a tutto campo, a cominciare dalle radici piemontesi. “Nella mia famiglia non si parlava italiano. Conoscevo solo Agrate Conturbia, Cesenatico, Bobby Solo e i ricordi di Messico 70. Del resto, come diceva Brera, facevo l’italiano in Francia e il francese in Italia. Cosa amo di qui? I gol fatti… Ma ho passato anni a vedere solo stadi e hotel, ora ho visitato la Costiera Amalfitana e andrò a Venezia, finalmente da turista”. Tanto calcio, nel suo racconto. “Il passaggio alla Juve? Avevo già firmato con l’Inter ma gli stranieri non potevano arrivare. Boniperti mi chiese ‘Vuoi parlare con l’avvocato? Pensavo intendesse il mio: ‘E’ qui’. ‘No, l’altro avvocato…’. Cosa mi chiese Agnelli? ‘Noi dobbiamo vincere la Coppa Campioni’. ‘Ci penso io’”. Eppure l’inizio alla Juve, nel 1982, non fu facile. “Dissi a Boniperti, se prendete me e Boniek e ci fate giocare come negli anni 40 non funziona. Poi mi sono curato e siamo partiti forte”. E l’affetto per il polacco resta, malgrado il ricordo dei gavettoni subiti dopo l’Europeo vinto nel 1984 dai Blues. “Non ricordo i gol che ho fatto fare a lui ma quelli che lui ha fatto fare a me. Però ne sbagliava tanti. Gli dicevo: ‘Io ti lancio il pallone, tu vai giù, aspettami che arrivo e segno io’. Però, anche se Michel giura di non rimpiangere le sconfitte (“E sono troppo orgoglioso per pentirmi di qualcosa che ho fatto”), i ricordi di una Juve bellissima si mescolano alle ferite. “La finale persa con l’Amburgo ad Atene? Non sempre vince il migliore. Ma nel 1984 io ero il migliore del mondo. Anzi, ero il migliore da quando sono nato. Anche se le classifiche dei calciatori sono sciocchezze, non puoi paragonare campioni di epoche diverse”. Il suo cruccio era solo il calcio difensivista. Ma oggi basta una battuta: “Io andavo dove diceva il Trap. Si, però poi tornavo dove dicevo io”.

regista—  

Poi il ritiro a 32 anni. “Era un momento complicato per problemi fisici e per quello che era successo a Bruxelles. Ero logoro, e non è bella la vita se non fai gol. Non volevo nemmeno fare il regista arretrato, alla Pirlo”. E, per Le Roi, nel suo ruolo oggi c’è un problema: i 10 giocano sulla fascia, non in mezzo. Un limite, secondo lui, anche per la stellina della Juve di oggi, Yildiz. Tra una considerazione amara sul caso Fifa che lo ha danneggiato (“La vita non è sempre facile ma chissà che un giorno non possa fare un contropiede e segnare”), una osservazione sulla Var (“Se fossi stato il presidente della Fifa non ci sarebbe mai stata. Lasciamo una dimensione umana al calcio, al massimo mettiamolo sul fuorigioco”), Platini non può infine che rispondere alla platea che gli chiede di tornare alla Juve come dirigente o tecnico: “Non si vive due volte una storia d’amore, preferisco fare qualcosa per il bene del calcio”. E poi, mille autografi.