I bambini della Terra selvaggia, romanzo autobiografico del 2012 dello scrittore olandese contemporaneo Auke Hulst, festeggia la sua ventunesima ristampa fornendo un chiaro ritratto del travaso ereditario di schemi educativi: se non opprimenti e tossici, nella loro presenza, preludio di vuoti asettici innescati da distacchi ed assenze incolmabili.

Eretto su fondamenta autobiografiche, I bambini della Terra selvaggia si allaccia via via al romanzo di formazione e immaginazione. I bambini/ragazzi protagonisti, quattro fratelli e qualche combriccola di contorno, impongono scenari e riflessioni imperscrutabili gravati dal trauma della perdita e della lontananza. A far da cuscinetto, in itinere, un limitrofo Bosco che allevia e lenisce, accogliendo sogni, proiezioni infantili e alchemiche interazioni (e rasentando i magici confini di quello Vecchio di Buzzati).  

In esso rifugge la giovane compagnia, stretta in un tacito patto sociale prodromo di sopravvivenza e custode di sacralità: la pericolosa passività di una madre assente, figura libertina e fumantina che si sottrae ai propri doveri, assume contorni apparentemente antitetici rispetto al grottesco ritratto di Vian ne Lo strappacuore”, terribile imperversare della madre nella vita dei “tremelli” tenuti sotto chiave.

Se in Vian la madre opprime, in Hulst scappa. Centrale, ad ogni modo, il tema della madre: da qui Recalcati ne indagherebbe la fatale “anarchia antisociale” del ”doppio volto”. Sparire ed essere lì ma in un altrove. Questo conta per la madre co-protagonista del romanzo: “essere morta e viva al tempo stesso”, motto parecchio datato e quasi premonitore, suo “rompicapo fin da quando era giovane”.

In questo clima boschivo e rurale, incastonato nell’Olanda degli anni ‘80, va pure annesso un padre stimolante ed eversivo, dal pensiero cinico e sedizioso, appassionato di scrittura e col tormento per le invettive a Chiesa e sistema scolastico.

Ci sarà da fare i conti con la sua prematura dipartita, traumatica esperienza a rendere ancor più fertile il terreno di una narrazione già di suo fitta ed abbondante, gravida di conversazoni lunghe e fosche. La prosa scava, e scava parecchio, senza passi falsi, sofismi e divagazioni. 

Si fa largo, a un certo punto, la battaglia personale che Kai eredita dal papà (naturale conseguenza di una peculiare fascinazione nutrita per lo stesso), consumata con lucida impudenza anche dopo il tragico commiato: “Insultare Dio era come insultare la mamma quando era lontana (…). Un gesto senza conseguenze (…)”. Salvo poi inciampare nel più ineffabile ed inconsapevole dei verdetti, e scoprirsi nudi alla meta, sancito da quel “Eppure Kai somigliava a sua madre più di quanto non volesse ammettere (…)”.

Turbamenti ed esitazioni indugiano sulla soglia di ogni singola vita, e alla fine, per l’appunto, presentano il conto. Di difficile rintracciamento la chiave di volta, e a sussurrarlo sotto voce anche l’autore al suo punto più alto: “(…) La bara era poggiata su tre assi incrociate sopra la fossa, intorno erano sparsi fiori. Anche quelli poi sarebbero morti, mentre nel prato avrebbero potuto continuare a fiorire: a pensarci c’era da impazzire”.

Auke Hulst (1975), scrittore, critico, saggista e musicista pluripremiato, è tra le voci più originali e potenti della letteratura contemporanea olandese. Si è affermato con I bambini della Terra selvaggia (2012), romanzo autobiografico che ha conquistato il pubblico dei Paesi Bassi ed è diventato subito un bestseller, arrivato oggi alla ventunesima ristampa. Il libro ha ottenuto diversi riconoscimenti tra cui, nel 2013, l’ambitissimo premio annuale del magazine “Cutting Edge”.