«Cosa significa essere vivi? O essere umani? Oggi più che mai è importante farsi queste domande. E il film spinge proprio a interrogarsi su questi temi. Spero che in qualche modo stimoli delle conversazioni. Oltre a essere visto sul più grande schermo possibile, perché è fantastico!». Jared Leto, 53 anni, ma dimostrati 20 di meno, sembra davvero una persona creata con l’intelligenza artificiale. Premio Oscar, cantante di successo dei Thirty Seconds to Mars, icona di stile e arrampicatore inarrestabile: è sicuramente un personaggio unico. Non stupisce che sia stato scelto per incarnare la forma fisica di un programma pensato per essere il soldato perfetto in Tron: Ares, terzo film della saga di fantascienza, nelle sale italiane da ieri.

A questo progetto tiene molto. Per due motivi. Primo: il Tron originale è uno dei suoi film preferiti. Come ci ha confermato in visita a Milano, dove ha trovato il tempo anche di andare a salutare il Milan a San Siro: «Sono un superfan. L’ho visto al cinema quando è uscito, nel 1982. Avevo 11 anni e mi sono innamorato di quel mondo. Mi colpì la tecnologia, per allora avveniristica. E ovviamente Jeff Bridges. È come Star Wars e Blade Runner: sono storie che vivono dentro di me. Poter recitare in un film di questa saga a 42 anni da quella folgorazione è incredibile».

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Il secondo motivo è che è anche produttore di Tron: Ares: «È bello poter avere voce in capitolo. Da fan, in modo egoista, ho spinto per far finire nella storia le cose che amo di più, come la Rete degli anni ’80. È stata la mia scusa per realizzare il sogno che avevo da bambino. E spero che, come me, anche chi ama il franchise apprezzerà la parte nostalgica. Il mio lavoro come produttore è tentare di rendere il film migliore. E a volte il modo per farlo è mettersi da parte: non sempre abbiamo ragione. Quando collabori devi sapere quando intervenire e quando no, anche se non sei d’accordo». Su una sola cosa non aveva un piano B, la colonna sonora: «Volevo assolutamente i Nine Inch Nails. E avevo ragione: Trent Reznor e Atticus Ross hanno fatto un grandissimo lavoro. In un certo senso questo è un film concerto. Un’esperienza viscerale».

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L’Ares del titolo è proprio il supersoldato di Leto. È stato progettato da Julian Dillinger (Evan Peters), CEO della Dillinger Systems, che compete con la ENCOM, azienda in cui lavorava l’ingegnere informatico Kevin Flynn interpretato da Jeff Bridges. Entrambe le compagnie lavorano con l’AI e stanno capendo come rendere fisiche le loro creazioni. Purtroppo però, una volta presa forma nel nostro mondo, tutte si distruggono dopo 29 minuti. Per stabilizzarle ci vuole il «codice permanence», che la CEO di ENCOM, Eve Kim (Greta Lee), crede di poter trovare nelle vecchie ricerche di Flynn. Dillinger sguinzaglia quindi Ares per rubarle il codice, ma non ha considerato l’imponderabile: può un’intelligenza artificiale scoprirsi umana? «A volte abbiamo bisogno di un punto di vista completamente diverso per capire chi siamo – dice l’attore – . Il mio personaggio è stato programmato con un compito preciso, ma poi, quando fa esperienza del mondo e degli esseri umani, comincia a farsi delle domande. Un po’ come se un alieno arrivasse sulla Terra e la scoprisse per la prima volta. L’essenza dell’umanità sta nelle piccole cose, in quei dettagli quotidiani che ci rendono persone».

Un altro tema importante è il tempo: i personaggi non ne hanno mai abbastanza, Ares ha pochi minuti di autonomia, si cerca il codice per la permanenza. Anche Leto si interroga su questo? «Se penso all’industria dello spettacolo, la permanenza è un concetto che non esiste. Non è possibile essere eterni in questo settore. E paradossalmente è proprio una delle sfide più belle. Ed è vero anche in altri campi e nella vita di tutti. La vita stessa è impermanente. Il punto vero è trovare sempre una motivazione per andare avanti». E sugli attori creati con l’AI, come Tilly Norwood, dice: «Abbiamo cominciato a scrivere il film dieci anni fa e all’epoca solo ricercatori e scienziati parlavano di AI. Oggi fa parte delle nostre vite. Non deve essere per forza una minaccia: può migliorare la nostra quotidianità. L’importante è che resti un aiuto, non che ci sostituisca».