«In mare la paura ti salva la vita», dice Margherita Cioppi, capomissione della Karma, una delle barche della Global Sumud Flotilla per Gaza. Trentatré anni, toscana, ex bartender, ha scoperto il mare quasi per caso: ha cominciato a lavorare sulle barche per sostituire un amico marinaio. Da quella prima traversata è iniziata una seconda vita: quattro anni di navigazioni, da marzo a novembre, e gli inverni passati in cantiere. Poi l’impegno nelle missioni umanitarie di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Quando Karma è partita, Margherita Cioppi sapeva benissimo che non sarebbe stata una navigazione come le altre. E quando la barca è stata intercettata in acque internazionali di fronte Gaza, ha visto i droni diventare armi, le comunicazioni saltare, i soldati israeliani salire a bordo con i fucili in mano. Poi, la detenzione, la solidarietà tra donne in carcere, e la reazione delle piazze. Oggi, mentre il mondo discute di un delicato accordo di pace, lei sceglie parole lucide, senza retorica, cita De Andrè: «La pietà che non cede al rancore è l’unico modo per non diventare come chi ti ha colpito».

Come sta e come sta vivendo questi ultimi giorni?
«Un po’ nell’onda del surrealismo. La cosa pazzesca è sentire che finalmente si parla di Gaza: al bar, alla fermata dell’autobus, perfino i carabinieri quando vai a fare una denuncia. Non me l’ero immaginata così. L’esercizio, per me, è sempre quello di stare nel qui e ora. Lì, ancora di più».

Perché ha deciso di salire sulla Karma come capomissione?
«Io e la Karma ci conosciamo da anni, abbiamo navigato insieme per tante miglia. Era una delle due imbarcazioni del progetto TOM – Tutti gli Occhi sul Mediterraneo, un’iniziativa di monitoraggio del Mediterraneo centrale. Negli ultimi mesi Karma era stata “declassata” a magazzino operativo: a bordo avevamo vestiti per i naufraghi, bende, garze, cappellini di lana o bandane a seconda della stagione. Facevamo, letteralmente, il cambio armadio. Quando l’ipotesi della flottiglia si è concretizzata, la decisione è arrivata per coerenza: se ci occupiamo di solidarietà in mare, e il mare è pieno di violazioni del diritto internazionale, allora gli “occhi” devono guardare tutto il Mediterraneo. Dovevamo essere lì».

Da dove siete partiti e com’è iniziata la navigazione?
«Da Augusta. Karma era a Licata: l’abbiamo trasferita un paio di notti prima, sistemata in cantiere e poi siamo partiti con la delegazione italiana della flottiglia. A livello professionale vado per mare da sette anni, e con il progetto TOM – Tutti gli occhi sul Mediterraneo navighiamo nel Canale di Sicilia da novembre, dieci giorni al mese. Tutto ciò che facciamo si muove nel rispetto della Convenzione di Montego Bay, che all’articolo 98 stabilisce l’obbligo per ogni comandante di assistere imbarcazioni in difficoltà. È un principio universale: vale per il pescatore, per la Capitaneria, per la Marina militare. Noi lo facciamo dal nostro privilegio di poterlo fare. Per chi non era mai stato in mare, navigare verso Gaza è stato uno shock. Sotto Creta abbiamo vissuto la prima “notte di fuoco”: i droni di sorveglianza che vedevamo di solito si sono trasformati in droni d’attacco».