Dice di aver capito di essere arrivato al capolinea dopo la reazione a suo dire eccessiva per il secondo posto della Vuelta e l’impossibilità di sprintare a Madrid ha fatto il resto. Dice di aver colto come un segno l’aver visto il Giro del Veneto concludersi nella sua Verona. Poi dice anche che passata la buriana legata all’annuncio di ritirarsi, è tornato a lavorare sodo in pista per i mondiali che lo attendono. E aggiunge che fra le persone cui vorrebbe dire grazie c’è Fabrizio Borra, fisio e consigliere, venuto a mancare troppo presto. Nulla di diverso da quello che ti aspetteresti da Elia Viviani, faro dei velodromi azzurri e velocista da 90 vittorie su strada, un oro e altre due medaglie olimpiche su pista.
Ma piuttosto che mettersi a fare l’elenco dei giorni belli, ci piace concentrarci sulle riflessioni più mature di Elia nel momento del ritiro. Quello che sicuramente lascia al ciclismo e che continuerà a dare. Un’intelligenza così vivace non si spegne staccando il numero.


Sui Grandi Giri
«Non fare grandi Giri negli ultimi tre anni – conferma Viviani – mi ha danneggiato al 100 per cento. La mia scelta di tornare in Ineos è stata dovuta alla medaglia di bronzo a Tokyo, nel momento in cui la mia carriera su strada non era all’apice. Il CONI guidato da Malagò, mi diede l’opportunità di essere portabandiera. Quel ruolo mi ha responsabilizzato e ho visto che qualcuno credeva in me. Quella medaglia mi ha fatto capire quanto siano importanti per me le Olimpiadi. Ineos mi ha dato la possibilità di tornare con un programma per arrivare fino a Parigi. Non avevano un leader per le corse a tappe e sarebbero andati nei Giri per le tappe. Invece non sono mai riuscito a entrare nel team né del Giro né del Tour né della Vuelta. Non per preparare le Olimpiadi, ma per restare nel mondo del grande ciclismo.
«Quest’anno alla Vuelta ho capito quanto mi fosse mancato quel tipo di esperienza. Il grande ciclismo sono i Grand Tour e le grandi classiche e se non fai quelle e sei un grande ciclista, ti manca qualcosa. Tre anni che sicuramente mi hanno tolto qualcosa nella carriera, ma non mi hanno impedito su pista di raggiungere quello che volevo, dato che comunque a Parigi la medaglia è stata raggiunta».


Su Elia bambino
«All’Elia bambino – sorride Viviani – direi di non cambiare niente. Sono stato fortunato perché ho trovato le persone giuste nella categoria di giovanissimi, che mi hanno portato fino agli juniores. Ho trovato un ambiente che mi ha fatto crescere bene, continuando a studiare. Le cose cominciavano ad essere serie, ma era ancora un divertimento. Poi ho trovato la devo della Liquigas e in Paolo Slongo la figura che mi ha cresciuto e mi ha dato l’opportunità di fare gli under 23 tranquillo, sapendo già di avere un contratto in tasca.
«Quindi la Liquigas, una squadra italiana piena di campioni che mi sono stati d’esempio e direttori sportivi come una volta. Passare al Team Sky è sempre stato il mio sogno da pistard, ovviamente guardando gli inglesi. Mi hanno portato alla prima vittoria a un Grande Giro. Davvero, al piccolo Elia consiglierei di non cambiare nulla».


Sui ragazzi di ora
«E’ molto complicato – riflette Viviani – dare consigli a un giovane di adesso. Mi verrebbe da dirgli: «Prenditi i tuoi tempi. Quando passi professionista datti il tempo di trovare i tuoi valori, trovare la tua dimensione, raggiungere i tuoi risultati». Ma la realtà del ciclismo moderno è diversa, quindi non so neanche se possa essere un consiglio valido. E’ un ciclismo dominato da fenomeni ed è inevitabile che per alcuni sarebbe il consiglio sbagliato. Sarebbe troppo prudente e quindi in questo mi trovo un po’ in difficoltà. Le nuove generazioni sono cambiate e non saremo noi a riportarli indietro».


Sul ciclismo italiano
«Mi piace guardare il bicchiere mezzo pieno – dice Viviani – abbiamo Milan che potenzialmente è il velocista più forte al mondo. Abbiamo i giovani che stanno arrivando anche nei Grandi Giri. Tiberi ha avuto un anno storto, ma penso che sia il presente per le classifiche generali. Pellizzari ha fatto una crescita progressiva con Reverberi. Ora è alla Red Bull: gli hanno permesso di fare il salto di qualità e ha già dimostrato in due Grandi Giri nello stesso anno di essere uno dei prossimi corridori che possano ambire a vincerne uno. Finn è il nuovo fenomeno del ciclismo italiano e prego il Signore che abbia il giusto percorso di crescita. Ganna ha fatto delle grandi classiche quest’anno. Ha avuto quel brutto incidente al Tour che gli ha compromesso la seconda parte di stagione, però Pippo è il nostro uomo per le classiche, insieme ai veterani che possono essere Trentin e Ballerini.
«Secondo me il ciclismo italiano sta bene, ma se andiamo a confrontarci con Pogacar, dobbiamo arrenderci a uno che da solo fa i risultati di una squadra WorldTour di vertice. Scaroni ha fatto un’annata da top rider. Fortunato è da anni uno dei migliori scalatori che abbiamo. Bettiol dà i suoi squilli. Quindi ci siamo, però sicuramente c’è del lavoro da fare. Quello che preoccupa è il ciclismo giovanile. Le categorie juniores e U23, ma anche gli allievi, perché la ricerca del talento va sempre più in giù. Penso che fare qualcosa sia dovere della federazione e responsabilità di chiunque ha in mano questi ragazzini».


Sulla Vuelta
«La Vuelta è stata un’esperienza difficile. Non abbiamo mai messo in discussione le ragioni della protesta – spiega Viviani – era giusto protestare per quello che stava succedendo. D’altra parte mi è dispiaciuto tantissimo non aver sprintato a Madrid. Lo stesso per tre giovani della squadra che non avevano mai concluso un Grande Giro. Sai che al traguardo ti aspettano famiglie e fidanzate e invece ti ritrovi a chiamarli sperando che stiano bene perché all’arrivo ci sono delle rivolte.
«In quei 21 giorni ho provato a mettermi nei panni dei ragazzi della Israel-Premier Tech. La verità è che se due o tre anni fa avessi firmato un triennale con loro, sarei stato in quella squadra e nella loro stessa situazione. Non dovevamo essere noi ciclisti a cacciare via i nostri colleghi. Per cui, da ciclista mi sarebbe piaciuto fare una Vuelta senza nessun intoppo, dall’altra dico che era giusto protestare per una ragione del genere. Adesso se Dio vuole, pare si sia trovato un accordo e speriamo che la squadra possa avere un futuro».


Sui media
«I social hanno portato un canale di comunicazione che prima non c’era. Qualche anno fa, per dare l’annuncio del mio ritiro, avremmo dovuto organizzare una conferenza stampa da qualche parte. Con l’arrivo dei social, basta un clic. Sicuramente quindi il rapporto con i media è diminuito, ma dall’altra parte la verità è che le cose belle vengono fuori solo parlandone faccia a faccia. Sono ancora uno dei corridori vecchio stile.
«Dai social c’è da prendere il bello e il brutto, purtroppo o per fortuna, perché alla fine sono diventati un vero e proprio lavoro. E poi dipende da come vengono gestiti dagli atleti. Alcuni se li fanno gestire, a me invece è sempre piaciuto avere il controllo. Mi aiutano a livello grafico, però mi è sempre piaciuto avere il controllo di quello che dico e quello che faccio vedere ai miei tifosi o ai media che ci seguono».


Sulla sicurezza
«C’è tantissimo lavoro da fare – si lancia Viviani – ma non è collegato ai materiali. Standardizzare la misura dei manubri ha senso per impedire gli estremismi. Nel gruppo WorldTour non vedo cose stranissime sotto questo aspetto. Però è ovvio che devi mettere una regola perché chi ad esempio monta manubri sotto i 30 centimetri, che rendono la bici inguidabile nelle situazioni di gruppo compatto. Gli altri limiti non so chi li inventa, anche quello dei rapporti. Se tu limiti i rapporti, ci saranno gli allenatori che faranno fare lavori di cadenza ai corridori e le velocità saranno sempre quelle. Grandi cadute in discesa avvengono nelle curve non sul dritto, perché qualcuno perde il controllo della bici. Le tappe velocissime in pianura sono sempre meno, quindi gli sprinter devono allenarsi a vincere tappe da 2.000, 2.200, 2.500 metri di livello. Quindi la regola dei manubri ci sta, bisogna mettere dei limiti. La regola dei rapporti è una cosa buttata là e infatti non si farà neanche il test.
«Sulla sicurezza c’è tanto da fare, se ne parla tanto e alla fine non si fa niente. Parliamo di transenne, imbottiture sugli ostacoli, queste cose qui. Ci sono gare in cui ti chiedi come sia possibile che un gruppo di professionisti dell’elite del ciclismo corra su percorsi del genere e con delle transenne così».