C’è un momento, leggendo Il corpo e la sembianza di Riccardo de Torrebruna, in cui si capisce che non si tratta solo di teatro. È qualcosa di più, o di meno — a seconda dei punti di vista. È un corpo che pensa, una voce che si chiede se la verità stia nella parola o nel respiro che la precede. Ed è in quella pausa, in quel piccolo spazio tra dire e tacere, che de Torrebruna costruisce la sua poetica: un teatro asciutto, esatto, quasi chirurgico, che però non rinuncia all’emozione, al fremito, al dubbio.
Riccardo De Torrebruna: l’autore romano torna con un libro che scava nella carne delle parole
Nato a Roma, laureato in Filosofia, de Torrebruna è una figura anomala nel panorama italiano. Ha attraversato il cinema, la televisione, la narrativa, ma senza mai perdere il suo centro di gravità: la scena. Lavora tra l’Italia e l’estero, tra Roma e New York, e porta nel suo bagaglio di attore e regista una disciplina che sembra appartenere a un tempo in cui il teatro non era mestiere, ma destino.
I suoi testi — da Zoo Paradiso a Gay Panic, entrambi premiati per la drammaturgia — nascono da una tensione morale, da un’urgenza che non concede distrazioni. Zoo Paradiso, messo in scena all’Actors Studio di New York, racconta l’assedio di Sarajevo ma parla di tutti gli assedi: quelli che ci portiamo dentro, quelli che non finiscono mai. E il suo Gay Panic, pubblicato sempre da La Mongolfiera, è un piccolo classico sotterraneo del teatro indipendente italiano, un testo che affronta il tema dell’identità con coraggio e compassione, senza sconti né proclami.
Ma De Torrebruna non è solo teatro. Nel 2000 ha esordito nella narrativa con Tocco Magico Tango, seguito da romanzi e racconti come Storie di ordinario amore, Blood & Breakfast, Hahnemann, Sonata in cinque movimenti, Crollo di Atlante, La ragazza di Donetsk. Ha scritto anche per il cinema: con Marco Risi e Francesco Frangipane ha firmato le sceneggiature di Tre Tocchi e Il Punto di Rugiada, film che gli è valso il Nastro d’Argento 2024 per il soggetto. Una carriera di confine, mai chiusa in una definizione.
Eppure, tornando al suo nuovo libro, si ha l’impressione che de Torrebruna voglia smontare tutto ciò che il teatro sembra essere diventato: rappresentazione, intrattenimento, illusione. In Il corpo e la sembianza non si recita, si respira. Non si mostra, si espone. I personaggi dei suoi testi non “interpretano”, ma “abitano” la scena, come se ogni parola fosse un tentativo di salvarsi.
C’è qualcosa di commovente e quasi scandaloso in questa idea di teatro come confessione pubblica, dove la fragilità diventa forza e il dubbio diventa materia viva. E non stupisce che i suoi lavori siano stati accolti con favore nei contesti più rigorosi: dal Premio Migrarti del Ministero della Cultura alla selezione per il Festival di Spoleto, fino ai riconoscimenti per la drammaturgia indipendente.
Venerdì 24 ottobre, alla Libreria-Caffè La Vita Nova di Tarquinia, De Torrebruna presenterà Il corpo e la sembianza insieme all’editore Giovanni Spedicati. Sarà un incontro, certo, ma anche una piccola messa laica, come capita quando la letteratura e il teatro tornano a fare ciò per cui sono nati: restituire voce a chi non ce l’ha, e corpo a chi l’ha perduto.
In tempi in cui tutto è performance, De Torrebruna ci ricorda che la verità è un’altra cosa: non si mostra, si attraversa. E che l’arte, quando è sincera, non serve per apparire migliori — ma per capire, almeno un po’, chi siamo davvero sotto la nostra sembianza.