Nel foyer del teatro milanese Franco Parenti ci sono 14 persone sedute. Di fronte a ognuna di loro una sedia vuota. Tutti indossano la stessa maglietta rossa con la scritta “libro umano” sul petto: il posto libero è riservato a chi deciderà di ascoltare la loro storia. 

In occasione della Giornata mondiale della salute mentale, il 10 ottobre 2025, Fondazione Empatia Milano ha organizzato a metà mese una “human library” o “biblioteca umana”. I 14 “libri” sono in realtà persone che hanno conosciuto o stanno ancora vivendo situazioni di disagio mentale. Le storie di ciascuno sono riassunte in un catalogo con un titolo rappresentativo e un sommario descrittivo. I visitatori possono scegliere quale “libro umano” ascoltare, in un incontro di mezz’ora, faccia a faccia, seduti uno di fronte all’altro. 

Come spiega Cristina Savino, formatrice e portavoce di Fondazione Empatia Milano, ente promotore dell’evento, “l’obiettivo dell’iniziativa, nata in Danimarca nel 2000, è quello di smontare i falsi miti che circondano il tema della salute mentale e di chi lo vive o in prima persona o per lavoro o relazione familiare, e cambiare la narrazione della malattia: non più riportata da tecnici, ma dal basso, da chi ci è passato”.

Tra i 14 libri le prospettive sono molto diverse. Per alcuni la malattia è oggi un ricordo. Come per Enrico, che per più di vent’anni ha sofferto di gioco d’azzardo patologico. All’inizio, appena diciassettenne, le scommesse sui cavalli erano un divertimento. Poi la dipendenza lo ha portato a giocarsi i soldi delle polizze affidatigli dai suoi clienti, senza nemmeno più essere interessato a vincere o perdere, perché tanto il giorno dopo si ricominciava da capo. “A 37 anni mi hanno chiuso i rubinetti, nessuno si fidava più di me. Con imbarazzo ho per la prima volta chiesto aiuto e con il gruppo dei giocatori anonimi, e tanta pazienza, ho compreso la radice emozionale di questa malattia che, dietro al gioco d’azzardo, nasconde un problema di co-dipendenza e, finalmente, ne sono uscito”.

Il “libro umano” Luca racconta la sua storia © Francesca Bellini

Per Tommaso invece la schizofrenia rappresenta il presente: “Chiedere ‘sei guarito’ è la domanda sbagliata. La malattia psichiatrica non va via, non c’è guarigione. Quello su cui si può lavorare è la stabilità, vivere giorno per giorno e con l’aiuto del gruppo diurno e delle medicine mantenere un equilibrio”.

Come osserva Tommaso, nessuno si azzarderebbe a discriminare o isolare una persona diabetica perché per tutta la vita è costretta a prendere delle medicine, in quanto malattia cronica. Per un malato mentale però non è così e agli sguardi compassionevoli e pietistici si alternano gli scherni e la paura. “A tutti quelli che mi trattano come fossi un bambino rispondo provocatoriamente ‘sono pazzo non scemo’. Le persone pensano al disagio psichiatrico come una colpa, un problema. Perché mi devo vergognare di quella che è una malattia? C’è tanta ignoranza e tanta paura. Anche nella ricerca di un impiego, appena si menziona il tema, i datori di lavoro si ritraggono ed è a priori un ‘no’. C’è molta più attenzione e comprensione verso chi ha una disabilità fisica. Ma io mi chiamo Tommaso e non voglio essere un’etichetta”. 

Il tema della vergogna e del senso di colpa è ricorrente, non solo per chi vive in prima persona la malattia, ma anche per i familiari che accompagnano chi sta attraversando quel disagio, la cui storia è molto spesso inascoltata. Maria Luisa ha riconosciuto per la prima volta il proprio malessere attraverso quello dei suoi due figli. Nonostante i tanti viaggi e la laurea in Matematica, in anni in cui non era così comune per le donne studiare, non aveva mai sentito parlare di salute mentale, obbligandosi a ignorare i segnali di forte malinconia che provava. Quando però i suoi figli si sono entrambi ammalati ha capito che dietro il loro dolore c’era la sua storia e per la prima volta ha chiesto aiuto. “Mio padre è morto quando avevo due anni. Nessuno in quel periodo mi ha mai chiesto come mi sentissi, c’era l’idea che i bambini piccoli non soffrono. Tutta la mia vita è stata una fuga, caratterizzata da sfide e sport estremi per non pensare al vuoto che avevo dentro. Ai miei figli ho trasmesso quest’ansia da prestazione, diventando per loro un modello inarrivabile”. 

Con la psicoanalisi multifamiliare Maria Luisa affronta quel dolore e per la prima volta riesce a piangere davanti a qualcuno. Quel momento per lei è l’epifania, un cambio di vita e di sguardo verso i suoi figli e sé stessa. “Non c’è senso di colpa oggi per quello che è successo, ma riconoscimento del dolore. Attraverso la terapia di gruppo, ho imparato ad avere pietà di me e a perdonarmi”. 

La consapevolezza di quanto il disagio mentale non colpisca solo la persona malata, ma l’intero nucleo familiare, è il motore che spinge Maria Luisa a essere la presidente dell’associazione Psiche Lombardia, nata per accompagnare altri genitori, che non trovano supporto nelle strutture sanitarie, in percorsi di cura e guarigione. 

La biblioteca umana allestita al teatro Franco Parenti, sabato 11 ottobre © Francesca Bellini

Molti dei libri umani presenti fanno parte dei due progetti AccogliMi Plus e R3 insieme per Recovery, co-finanziati dal Comune di Milano e implementati da diverse organizzazioni del terzo settore, tra cui la Cooperativa lotta contro l’emarginazione. Per Davide Motto, responsabile area salute mentale di quest’ultima e portavoce del Cnca Lombardia, di cui la cooperativa fa parte, la forza delle biblioteche umane sta proprio nelle storie raccontate che in un modo unico riescono a permettere alle persone che partecipano, come libri umani e come visitatori, di creare un momento di spontanea condivisione e intimità, lontano dalle distrazioni della quotidianità. 

Le reazioni di chi si siede sulla sedia come ascoltatore sono infatti sorprendenti. C’è chi si commuove, chi abbraccia il “libro”, chi si scambia numeri di telefono. “La cosa più bella è che portando questo format in diversi luoghi della città (sono state sedi di iniziative come questa il Museo del Novecento, il Mudec e la sede della Regione Lombardia, solo per citarne alcune) si possono raggiungere tantissime persone che non hanno necessariamente una correlazione con la salute mentale e non fanno parte del giro degli operatori o delle famiglie dei beneficiari. Questo -conclude Motto- ci permette davvero di fare un passo avanti per rompere il muro del pregiudizio”.

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