Apri un romanzo e dopo due pagine ti distrai, torni indietro, ricominci, non ti riesci a concentrare. Le parole scivolano via senza lasciare traccia. Una volta non era così, perché la lettura era un rifugio naturale, un modo ovvio per stare al mondo. C’era tempo per leggere, mentre adesso bisogna stare dietro a notizie continue e a lunghe liste di cose da fare, e chi ha davvero ancora il lusso di poter passare delle ore in silenzio davanti a un libro?

In effetti, tutto il mondo che ci ruota intorno sembra aver reso impossibile riuscire a fare attenzione come prima. Il filosofo Bernard Stiegler ci aveva avvertiti qualche anno fa: i dispositivi del capitalismo cognitivo operano una distruzione sistematica dell’attenzione, e dunque non siamo diventati semplicemente più distratti, ma stiamo subendo una profonda trasformazione delle nostre capacità di pensiero.

In una società che ha smesso di annoiarsi, e che anzi offre stimoli infiniti e tiene col fiato sospeso (chissà con quale notizia terribile ci sveglieremo domani mattina), la lettura implica troppa fatica per essere esercitata. Serve troppo tempo per capire come va a finire una storia, ci sono troppe informazioni da trattenere, troppi impliciti da riconoscere. Per chi ha sempre letto con godimento questa difficoltà rappresenta la perdita di uno stato meditativo e porta a sviluppare la convinzione di non funzionare più come prima. Se colpevolizzarsi non serve a niente, è anche vero che per riuscire a dedicarsi ai libri oggi è richiesta la scelta intenzionale di sostare nel disagio senza doverlo risolvere, di abitare l’incertezza, di convivere con pensieri che disturbano, con ritmi lenti, con una dimensione di incomprensione che chiede di sospendere il giudizio, di affidarsi a chi ha scritto le pagine che abbiamo davanti e che ci chiede di abbandonare il controllo. Chiede di rinunciare a ottimizzare i tempi, di accettare che per un certo numero di ore non si concluderanno task, non si farà nient’altro.

2019 – Valérie Perrin “Preferisco cambiare la terra ai fiori perché ricrescano un anno dopo l’altro”

Elena Masuelli

11 Ottobre 2025

«Ad avercelo quel tempo», si può rispondere. È innegabile: il modo in cui le nostre vite sono organizzate non lascia margini, non esiste proprio lo spazio della pratica, tutto viene fagocitato da una mole infinita di altre cose da fare, da sapere, a cui rimediare nell’immediato. Il problema è che quella capacità di sostare nel disagio e di abitare l’incertezza ci serve per molto altro oltre che per leggere i libri. Ci serve per stare al mondo mentre tutto intorno sembra sgretolarsi, per guardare in faccia il presente senza dover subito trovare una soluzione o una consolazione, senza cercare un immediato conforto.

Di fronte alla crisi climatica, alle guerre, al collasso delle democrazie, alla precarietà crescente la nostra prima reazione è cercare qualcosa che ci rassicuri, una conferma che “andrà tutto bene”, una tecnica veloce per rimanere positivi mentre il pianeta brucia. Eppure non basta cambiare prospettiva per trasformare ogni catastrofe in occasione di crescita personale, perché mai come oggi sappiamo quanto siamo interdipendenti, e viviamo con la sensazione – se abbiamo un minimo di empatia e sensibilità – di non poter essere pienamente felici se tanti altri poco lontani da noi stanno morendo, anche per la nostra complicità.

I Greci avevano una parola per descrivere l’esperienza che nasce quando le certezze vacillano: “thauma”. È la meraviglia non come sentimentalismo, ma come stupore primordiale che è insieme gioia e terrore. È ciò che provi quando assisti a qualcosa che eccede la tua comprensione e spacca le tue categorie, qualcosa che non puoi ricondurre a quello che già sai e che non ti fa dormire la notte, nel bene e nel male. È l’opposto dell’indifferenza.

Aristotele diceva che la filosofia nasce da questo spaesamento radicale che ti spinge a cercare, che una volta vissuto ti porta a non poter fare a meno di interrogarti. L’esperienza di chi guarda il mondo e vede la sua bellezza e il suo orrore, e non può negare nessuna delle due realtà. Ciò che stiamo perdendo è questa capacità di stare nell’incertezza senza dover subito trovare il lato positivo, ma senza collassare nella rassegnazione.

Torniamo alla lettura. Nella commedia Le nuvole di Aristofane (423 a.C.), il protagonista Strepsiade a un certo punto entra nella scuola di Socrate e trova un discepolo che sta leggendo un libro da solo. A quel tempo il pubblico probabilmente rideva guardando quella scena, perché isolarsi a leggere significava essere dei tipi strani. A un certo punto della storia moderna, però, la lettura ha smesso di essere una pratica sociale ed è diventata privata e silenziosa. Serviva per vincere la noia di chi non doveva lavorare e non aveva altri mezzi di intrattenimento, e serviva anche per trasmettere i messaggi edificanti e i valori imprescindibili dello spirito del tempo. Oggi, al contrario, i mezzi di comunicazione sono così tanti e pervasivi che messaggi di ogni tipo vengono diffusi ovunque e in modo massiccio, e dunque sembra che leggere non serva più.

Eppure, quello che sta accadendo è che la lettura sta tornando a essere una pratica sociale, come era alle origini. Sta accadendo con i bookclub, i reading party, le occasioni in cui ci si ritrova e si legge insieme, grazie a quella incredibile capacità che ci permette di concentrarci meglio quando ci troviamo insieme ad altri esseri umani che stanno compiendo la nostra stessa azione (i neuroscienziati la chiamano oscillazione neuronale interbrain).

Mentre il mondo brucia, chi prova a sostare nella complessità senza fuggire nel conforto facile o collassare nella rassegnazione, e chi prova a farlo insieme agli altri – contrastando la paura dell’altro e il senso di sfiducia – sta praticando un minimo gesto di resistenza che forse non ha effetti immediati, che non ha un’utilità pratica, ma che nella sua ostinazione e nella sua fragilità continua ad avere senso. In quel gesto ci sono gioia e terrore, e in fondo è tutto quello che ci serve per non rimanere indifferenti, per provare ancora meraviglia.