Un attore straordinario (che è un cane), una storia horror che sotto nasconde qualcosa di diverso, e commovente. La recensione di Good Boy di Federico Gironi.

Leviamocele di torno subito, le facili battute. Facili, ma mai veritiere come in questo caso. Perché da Good Boy in avanti non potremo mai più dire di un attore che non ci piace, o che non è bravo, che è un cane. O anche perché potremmo invece dire che in un mondo popolato di attori che sono cani cani c’è però un cane che è un attore. Ok. Fine dei giochi di parole, promesso.

Il fatto è che se Good Boy funziona (e funziona) è anche perché il suo protagonista Indy – che si chiama così anche fuori dal set e che è un Nova Scotia Duck Tolling Retriever, più sinteticamente definito Toller – è stato protagonista di una performance che non è solo straordinaria, anche in senso etimologico, ma anche, lasciatemelo dire, commovente. Già, perché Good Boy è un horror, va bene, ma non serve essere dei fulmini di guerra per capire che la storia che racconta è la storia di un’amicizia, di una incrollabile fedeltà, a suo modo di un amore. Di perdita, alla quale non si è mai preparati.

Prima di tutto però a Ben Leonberg, esordiente, regista e co-sceneggiatore (con Alex Cannon) di questo film, va dato credito di una cosa, anzi due: dell’idea, e del coraggio nel perseguirla. Perché davvero: avere l’idea di girare un horror il cui protagonista e punto di vista non privilegiato ma unico è quello di un cane, e trovare i soldi e i modi per realizzarlo, non è davvero da tutti. Specie in un mondo – non solo del cinema – dove le idee mancano come a Fausto Leali mancava la tipa della canzone.

Poi certo, belle idee spesso vengono realizzare maluccio se non proprio male, e allora a Leonberg bisogna riconoscere pure la capacità di aver messo sullo schermo tutto come andava messo: perché Good Boy è un film elegante, bello a vedersi, che racconta un autore con un occhio cinematografico di tutto rispetto, e perché non sarà l’horror più spaventoso di tutti i tempi ma almeno rifugge dalle applicazioni più trite degli spaventi di bassa lega, e poi – se ci si entra, e ci si entra facilmente – la tensione (che è anche emotiva) la tiene bella alta. E chi se ne importa se sul finale certi effetti sono un po’ così, e manca un pizzichino di coerenza.

Non importa, che si siano delle sbavature (e no, non è un gioco di parole). Perché Good Boy come horror funziona, e perché quello che all’horror va a braccetto, nel film, è ben più importante.

Permettete che qui si espliciti l’ovvio: quella raccontata da Leonberg non è la storia di un cane, all’inizio pure un po’ fifone, che quando il suo padrone va a vivere da solo nella casa immersa nei boschi del New Jersey che era appartenuta al nonno, e che si dice infestata, si accorge che in effetti qualcosa non va e cerca di proteggere il suo umano ignaro. Quella raccontata da Leonberg è tutta un’altra storia, anche se la superficie è quella, ed è la storia di un uomo che ignora la sua malattia, e del povero Indy che cerca di combatterla o contrastarla come sa e come può, senza sapere che la partita è già decisa.

Ecco che allora Good Boy è il film che parla di una cosa sola. Di un addio struggente, che Leonberg e Indy mettono sullo schermo in un modo che ti va davvero venire un gran magone, con quell’ultimo sguardo lanciato dal cane prima di risalire, almeno lui, verso la luce. E, si pensi quel che si vuole sul film, ma se non vi sciogliete un po’ almeno lì in quel momento, se non vi sciogliete per certi sguardi carichi di un amore assoluto e certe reazioni sorprendenti, forse non è che solo che non amate i cani, forse è che non amate il genere umano.