Mostra Love You Always: 120 fotografie per raccontare le promesse da marinaio.
C’è perfino un famoso borgo ligure che nel suo nome porta il destino di chi va per mare e, soprattutto, di chi resta: Camogli, la casa delle mogli (e figlie, e fidanzate e amanti) che salutavano al porto i loro amati per rivederli mesi, anni, talvolta, oppure mai più di ritorno dal grande blu. Quando la distanza diventa prova dell’amore, le promesse da marinaio sono necessarie: ti amerò per sempre, tornerò. La giornalista Laura Leonelli raccoglie nel libro Love you always. Viaggio sentimentale nell’oceano dei marinai e della fotografia (Postcart, 2025, 20 €), 120 fotografie anonime, le stesse che sono protagoniste, fino al 9 novembre, dell’omonima mostra a Fotografica – Festival di Fotografia di Bergamo.

Amano il mare, amano i loro compagni, amano le fidanzate, le mogli, e amano le amanti che per poche ore incontrano nei porti del mondo. Sono i marinai e uno di loro ha scritto sul suo ritratto, con l’inchiostro azzurro di una stilografica, Love you always. Attraverso una selezione di oltre 120 immagini anonime, europee e americane dal 1860 al 1960, il libro di Laura Leonelli racconta una delle figure maschili più affascinanti e il senso di libertà e di avventura che, da Ulisse in poi, passando per la letteratura, il cinema, la moda, porta con sé. «I marinai che promettevano “I love you always” si sono affidati alla fotografia per mantenere questa promessa, che nasce sulla distanza», dice Leonelli. «Ovviamente anche anche i soldati facevano promesse, ma avevano a disposizione la concretezza della terra, che e dava più solidità, più certezza. Il mare è l’infinita incertezza che ci avvolge. Il nostro pianeta è al 71% acqua. Solo il 29% è terra. Quindi noi siamo acquatici, siamo fluidi, siamo incerti, siamo naturalmente esposti alle tempeste, alle onde, alla bonaccia. La fotografia nasce insieme ai marinai per dare tenuta all’esistenza». E in effetti nessuno più dei marinai ha chiesto alla fotografia ciò che solo la fotografia può garantire, e cioè che su quella piccola scialuppa di carta l’amore, l’amicizia, l’avventura, la casa dove fare ritorno, potessero resistere all’eterno movimento del mare, alla sua oscurità abissale e in superficie alla sua luce accecante.
Vestivamo alla marinara
Ma perché Laura Leonelli, tra le centinaia di migliaia di raccolte di fotografie anonime ha scelto di soffermarsi proprio sui marinai? «Perché i marinai rappresentano un maschile libero, un maschile che, a differenza, per esempio, dei soldati, ha aiutato le donne a emanciparsi, ha trasmesso valori positivi. Marinaio è libertà, è indipendenza, è affrontare i rischi, è essere solo di fronte all’imprevisto totale che è la natura». Un codice libertario che è piaciuto fin dagli inizi: «I primi a esserne contagiati sono stati i bambini, che dalla metà dell’Ottocento in poi cominciano a vestirsi da marinaretti, seguiti poi dalle donne. Icona pop, simbolo di innocenza e di rivoluzione, la divisa da marinaio popola l’immaginario romantico dal 1846. Ma a indossarla non è un muscoloso e scanzonato viaggiatore dei sette mari, bensì il piccolo Edoardo VII d’Inghilterra, immortalato da Winterhalter. Da allora, ha vestito i bambini dell’élite europea — da Proust a Camus — fino ai Fanny e Alexander di Bergman. È presente nel ricordo malinconico di Roland Barthes, nel Tadzio di Morte a Venezia, nel topolino Jerry guarito dalla tristezza danzando con Gene Kelly. Proprio Kelly, arruolato nella Marina, fu protagonista di Combat Fatigue Irritability, primo film sulla sindrome post-traumatica da stress. L’eroismo cedeva il passo alla fragilità, alla possibilità di piangere. Nel 1975, Lo squalo di Spielberg raccontava lo stesso trauma attraverso il marinaio Quint, sopravvissuto all’USS Indianapolis. Nel frattempo, Richard Avedon, ventenne fotografo di marina, immortalava i suoi compagni: muscoli, divise, sorrisi. In quelle immagini, germogliava già la fotografia di moda americana. La marinière — con le sue righe bianche e blu — diventa simbolo di stile, da Chanel a Jean Genet, da Colette a Isabelle Eberhardt, donna-libertà travestita da marinaio nel deserto algerino. Nel 1917, Chanel ne fa l’uniforme della modernità. Lo stesso anno, Loretta Walsh è la prima donna ufficiale nella Marina americana. «Questo viaggio nell’oceano dei marinai, e delle donne e dei bambini che hanno scoperto un altro orizzonte indossando la divisa a righe, è soprattutto un viaggio sentimentale nell’oceano della fotografia», spiega Leonelli.
Dal mare al cinema (passando per la danza)
«I marinai sono forse il gruppo sociale che si è fotografato di più, che è stato fotografato di più e che ha avuto anche una grandissima fortuna cinematografica. Sì, ha fecondato il cinema americano: Gene Kelly ha liberato la danza americana attraverso la figura del marinaio», racconta Leonelli. Ma non solo lui: «Jerome Robbins nel 1944, in piena guerra, ha creato un balletto in cui tre danzatori sono tre marinai sulla scena dell’American Ballet. Questo balletto è importantissimo perché ha creato per la prima volta un linguaggio di danza americana, una danza vernacolare». Com’è successo? Osservando, come farebbe un fotografo: per le strade di New York comincia a vedere marinai bellissimi in libera uscita e vede che hanno una fluidità, una fisicità straordinaria. «Sono insieme, sono a due, sono a tre, si toccano, si muovono insieme, ondeggiano, hanno un corpo che è abituato al movimento del mare e quindi è naturalmente danzante. E poi sono belli. Giovani, soprattutto gli americani».