Ai microfoni di Austin, interrogato sull’incidente mancato a Marina Bay con Oscar Piastri, Lando Norris parla di “ripercussioni“. Ma possono davvero esserci conseguenze per una manovra che rientra pienamente nel manuale del pilota? In una Formula 1 sempre più legata al fair play, l’audacia sembra pagare un prezzo inaudito e la McLaren pare esserne l’esempio più evidente.

Ripercussioni McLaren NorrisLando Norris accede al paddock di Austin per il media day © Getty Images

Se le papaya rules non vi sono ancora del tutto chiare, oggi non è il vostro giorno fortunato. In casa McLaren, infatti, oltre al neologismo che tormenta il paddock da un anno a questa parte, sembra essersi aggiunta un’altra voce all’elenco “Linguaggio in codice di Woking”. Una voce, questa, che non nasconde nulla e che, alla vigilia del Gran Premio di Austin, ci lascia a dir poco stupefatti: “ripercussioni”. Ai microfoni del Texas, incalzati dai giornalisti sul contatto di Singapore, i piloti McLaren hanno rilasciato dichiarazioni che, vista la difficoltà nel gestire una corsa al titolo interna, assumono un che di sensato, se solo non parlassimo di corse.

Abbiamo rivisto com’è andata, ci sono e ci saranno ripercussioni nei miei confronti fino alla fine della stagione. Non ne esco pulito, è stato un contatto minore e ci sarebbe stato il potenziale per evitarlo, non posso permettermi di essere coinvolto in incidenti o qualsiasi altro tipo di scontro. Ogni inconveniente mette a rischio il mio mondiale, qualunque sia la persona contro la quale io stia correndo. Ci saranno ripercussioni per me ma la volontà e la maniera con la quale scendo in pista rimangono le stesse di sempre”. Le parole di Lando Norris stridono non poco con l’anima della vera Formula 1, quella che vuole piloti affamati anche del più piccolo dei gap. Senza temerne le conseguenze. Fa sorridere pensare alle ripercussioni per un Norris che, delle partenze, non ha certo fatto il suo punto di forza, e che proprio quando riesce a farne una di tutto rispetto deve fare i conti con il dito del colpevole puntato contro. Ma si può davvero parlare di colpe? Se sfruttare un ottimo slancio e chiudere un sorpasso rientra nella categoria degli “sbagli”, allora c’è qualcosa che non va. E poco importa che l’altro membro dell’equazione fosse Oscar Piastri. Perché va bene pensare all’obiettivo mondiale, ma non quando ci rimette l’istinto del pilota. Che conciliare un approccio da vincente con la prudenza nei confronti del compagno di box pare ora più che mai inconcepibile. Un ossimoro, questo, che magari vedremo in scena già al COTA e che avrà ragione di esistere presumibilmente fino ad Abu Dhabi, salvo colpi di scena.

Il numero #81, dal canto suo, rincara la dose: “Non posso sapere quali saranno le ripercussioni, questa è una decisione che riguarda il team, ma Lando si è assunto le sue responsabilità e ci sarà sicuramente qualche forma di ripercussione”. Sul team radio di Singapore nel quale richiedeva un’azione da parte del team, dice: “Ogni situazione è diversa, credo che applicare una punizione nell’immediato sia molto difficile, in fin dei conti correremo nella maniera più pulita possibile, entro i limiti di quello che il team considera adeguato. Non ero contento di quanto accaduto e la squadra ha poi concluso che non fosse stato un primo giro accettabile”.

Muoiono sul nascere, quindi, i commenti di entrambi i piloti papaya, ma nel farlo fanno terra bruciata, del tipo che non avrà un secondo atto se non ripetizioni studiate di quanto già espresso. Una sensazione di incompletezza è quella che si respira nel paddock, con parole forti di cui non è dato sapere di più. Di fronte a dichiarazioni del genere, “assurdo”, “cauto”, “innaturale”, “manipolato” sono solo alcune delle espressioni risuonate dai microfoni di chi – ad Austin – cerca di trovare una spiegazione alle affermazioni di casa McLaren. Espressioni che hanno un chiaro intento di denuncia verso una classe che non sembra più al massimo della sua gloria, un mondo confuso che si veste di una patina politically correct e che del fair play vuole farne un imprescindibile vanto. Pensiamo a Monza, per esempio, quando in seguito a un pit-stop lento di Lando Norris, davanti a Oscar Piastri al tempo dell’accaduto, è stato richiesto a quest’ultimo di riconsegnare la posizione. Strascichi di papaya rules, per l’appunto, strascichi di una McLaren che, in Texas, torna ai semafori di partenza di quella gara contro il tempo che vedrà un solo vincitore a fine stagione. McLaren che dosa e che non si sbilancia formalmente, ma che presto di giustizia e imparzialità non se ne farà più nulla quando il titolo iridato verrà consegnato nelle mani di uno dei suoi due protagonisti.

Spesso, dinanzi al genio ribelle di chi non soccombe agli ordini di scuderia, c’è chi si lamenta della mancanza di spirito di squadra o dell’eccesso di indipendenza, in uno sport che in fondo è tutto fuorché individuale. Eppure, dinanzi all’esubero dell’esatto opposto, quando Norris e Piastri si trovano al guinzaglio di regole non scritte, l’audacia sembra assumere un peso inaudito. Collante di una Formula 1 che vuole spettacolo ma che ne punisce la sovrabbondanza, chiave di performance da sogno, infrante dal gioco corretto. È proprio il caso di dire, allora, che la classe regina forse non è più degna di portare un tale appellativo. Forse, il confine tra fiore all’occhiello del motorsport e semplice edulcorante si fa sempre più fragile.