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Massimiliano Nerozzi, inviato a Como
la Juventus non perdeva a Como dal 1950, scivola al settimo posto in classifica. Gli errori del tecnico ci sono: «Sono preoccupato? Un allenatore lo è sempre»
Più che di «finta piccola» (il Como, copyright Tudor) è questione di finta grande (la Juve), quella che ieri s’aggirava sul ramo del lago che volge alla sconfitta, come qui per Madama non accadeva dal 20 gennaio 1952, ai tempi delle trasmissioni sperimentali della Rai e di Eisenhower al posto di Trump: i bianconeri hanno faticosamente masticato gioco (55% di possesso palla), ma senza mai essere pericolosi (zero tiri nella prima metà e 0,88 goal expected al gong, una miseria); mentre Fabregas gonfiava transizioni assassine e tagliava la partita con Nico Paz, 21 anni e un bisturi al posto del mancino (assist e gol, nell’ordine).
«Sono deluso dal risultato — dice alla fine Tudor — e il gol su calcio piazzato all’inizio non si può prendere». In effetti, non erano passati neppure cinque minuti quando Nico Paz, su schema da calcio d’angolo, ha pescato Kempf, con il piede forte sul lato debole, alle spalle di una difesa da presepe in anticipo. La sconfitta verrà sigillata nel finale da un’altra pennellata del numero dieci — e chi sennò? — per gli applausi di Wenger ed Henry, gli ospiti della tribuna solitamente hollywoodiana. Facendo scivolare la Juve al settimo posto, come non si vedeva dal burrascoso girone di ritorno del 2023, squassato però dalle penalizzazioni. «Se sono preoccupato per i risultati? Un allenatore lo è sempre — ribatte il tecnico — lo ero anche prima, da giocare: sono trent’anni che sento parlare di partite e di settimane decisive; ma io penso solo a come migliorare i ragazzi e la squadra, è l’unica cosa che ho in testa». Detto che la società non ha (ancora) preso decisioni né alzato il telefono, tra gli agenti, gente che ha un certo interesse, si chiacchiera già di qualche nome (Palladino, per dire): insomma, tra il club e il tecnico croato tira aria gelida, pure nell’ultimo confronto di ieri sera. Morale: tra mercoledì a casa del Real, in Champions, e domenica sera nell’arena della Lazio, in campionato, Tudor, e quindi la squadra, dovranno dare qualche segnale, di gioco.
Non è bastato rivoltare (forzatamente) l’assetto in un 4-3-3 anche se poi, palla a Madama, la fase di costruzione era affidata al classico 3-4-2-1, dove Cambiaso e Conceição ricevevano palla ad altezze sfalsate. Combinando pochino il primo, dribblando molto il secondo, ma con palloni in mezzo spesso preda del nemico. La condanna della Juve, banalmente, è stata pure la rete presa al pronti e via, quella che l’ha condannata a una partita con ritmi più alti del previsto, quando non caotici, finendo così a tratti in balia delle ripartenze del Como, sempre ben pianificate anche a due tocchi, tra la tigna di Da Cunha e il cervello di Perrone. Di fronte a un centrocampo bianconero che faticava a tenere le distanze, lasciando la difesa ai duelli all’arma bianca. Inutile il finale juventino con il 4-2-4 prima delle scintille degli spogliatoi: «Mister Tudor, lo chiamo con rispetto anche se lui mi ha chiamato “l’allenatore del Como”, ha detto che ho preso i giocatori che volevo, ma forse non gli hanno spiegato bene le cose». E Igorone: «Fabregas può dire quello che vuole». Fossero solo le parole il problema (anche quelle eh).
19 ottobre 2025 ( modifica il 19 ottobre 2025 | 23:31)
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