Ho scritto un libro dal titolo Rinnamorarsi. Non so se si tratti di un libro sincero e non so neppure se vorrei lo fosse. Di certo è un libro sull’amore in una stagione del tutto inusitata della vita, quando – dimostro 86 anni perché li ho – con l’amore, nelle sue più svariate declinazioni la partita si dovrebbe considerare conclusa.

L’INTERVISTA

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Se mi sono trovato a confidarmi, come mai era accaduto prima, è perché a me non sta andando così.

In quel “ri”, che prelude al verbo riflessivo, è inclusa una doppia reiterazione in quanto non mi sono semplicemente rinnamorato, come è accaduto con le più diverse ragazze in diversi momenti della mia giovinezza, ma il rinnamorarmi di oggi è riferito a quella ragazza che mi incantò più di sessant’anni fa e che è tutt’ora mia moglie.

Si tratta di un libro di in questa strana età della vita in cui a rendere la vecchiaia sopportabile provvedono gli inattesi bagliori della mia infanzia, un libro anomalo, diverso da tutto quello che ho narrato al cinema o sulla carta. Un libro scritto senza paura di eccedere nella nostalgia che ormai provo per me stesso. Molti miei coetanei, appellandosi a una doverosa dignità, troveranno disdicevole intenerirsi su se stessi.

Volersi bene, essere riconoscenti al proprio cuore, alle proprie gambe, alle proprie mani fiorite di macchie cutanee.

Ho il limite di essermi sempre segretamente apprezzato, d’accordo con mia madre che mi insegnò a porre gli esseri umani ingenui, i timidi, gli inibiti ai vertici della sua classifica. L’ingenuità che ha contrassegnato gran parte della mia vita ha legittimato tutti i miei sogni e alcuni, quelli più improbabili, si sono realizzati.

In questo libro parlo di come abbia fatto due scoperte, quella di essere ormai entrato nella vecchiaia e, in coincidenza, quella di essermi rinnamorato della ragazza che conobbi nel 1962 e che da sessant’anni è mia moglie.

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Così, nello stupore che questo sentimento raggiungendomi ha prodotto in me, ho cercato di lasciarne sulle pagine una traccia. Come abbia fatto a conquistarla, trattandosi di una delle ragazze più seducenti della Bologna dei primi anni ’60, rimarrà un mistero, ed è un mistero quello che sta accadendomi da qualche tempo. Prima di scriverne ho atteso di esserne certo nel dubbio si trattasse di demenza senile.

Non era così.

Nella realtà, durante questi sessant’anni, io e lei abbiamo quasi sempre litigato, ci siamo reciprocamente lasciati e rimessi assieme, eternamente per le stesse ragioni.

L’aspetto singolare dell’appalesarsi di questo sentimento coincide con un più ampio rinnamorarmi.

Rinnamorarmi dei tantissimi libri che ricoprono le pareti della casa in cui vivo. Dotati ognuno di una forte ragione identitaria, connessi alle mie ricerche, alle mie curiosità, ai miei strampalati studi, a quanto tuttora scopra di amarli. Penso molto al destino che li attende, come al destino che attende le centinaia di dischi di jazz o di musica classica. Libri e dischi che non interesseranno a nessuno, destinati al macero. E pensare che per ognuno di loro, scelto con ponderazione e collocato in quel determinato scaffale per una ragione che solo io conosco, provo riconoscenza avendomi donato e continuando a elargirmi le ebbrezze più profonde.

E mi rinnamoro di questa scrivania. Che fu di mio padre e che ha visto nascere la maggior parte dei miei film e dei miei romanzi. E mi rinnamoro del mio clarinetto che ha viaggiato con me l’Europa con una mezza dozzina di amici che condividevano lo stesso sogno.

Nella mia vita di ultraottantenne sta riaffacciandosi un mondo che ritenevo scomparso, quello della mia infanzia.

Vorrei tornare quel bambino che ben vestito e pettinato usciva per andare al cinematografo per mano ai miei genitori, a sinistra mia madre, a destra mio padre. Siamo stati un trio fantastico, lo so, imbattibile. Io, mio padre e mia madre quando percorrevamo il Pavaglione per raggiungere il cinema Astra dove proiettavano quel Robin Hood con Errol Flynn, primo film a colori del dopoguerra bolognese, e mi sentivo felice come difficilmente sarei più stato.

E mi rinnamoro di via Margutta che percorrevo con Fellini negli ultimi anni della sua vita, gli anni de la voce della luna. Anche Fellini viveva la nostalgia di se stesso. Mi parlava dell’insuccesso dei suoi ultimi film con una sincerità che non sapevo di meritare.

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Mi rinnamoro del sorriso di Pasolini quando sollevava lo sguardo dalle poche pagine della porzione di sceneggiatura di Salò che avevo scritto e mi guardava sorridendomi e smozzicando un “bene” che mi faceva sentire un leone.

Se la vecchiaia non ci desse l’opportunità di rinnamorarci cosa sarebbe?

La constatazione di un tramonto di tutto.

Un’interminabile attesa di un silenzio infinito.

Ma la scoperta di questo inatteso sentimento, nell’assenza di qualsivoglia contatto fisico, è l’attesa dello sguardo di quella lei che è il mio hard disk contenente la gran parte della mia vita, nei giorni cattivi e in quelli buoni. Quando ci amammo o ci odiammo. Quando piangemmo una perdita o quando piangemmo di gioia. Tutto e accaduto nella nostra vita.

E quella ragazza c’era sempre.

E spero continui per sempre ad esserci.