di
Irene Soave

La newsletter «Big Bubble» di questa settimana: il diario americano di una maternità molto tech e quello, italiano, di una mamma che ha cancellato Instagram per stare meglio

Questo articolo è tratto da Big Bubble, la nuova newsletter del Corriere firmata da Irene Soave: è gratuita, arriva la domenica mattina e ci si iscrive qui

Scarica un’app per il ciclo mestruale, che le dice cosa mangiare secondo le diverse fasi, che umore aspettarsi, come aumentare le possibilità di concepire; quando scopre di essere incinta sblocca la «modalità gravidanza», e sullo schermo compare «un grappolino di cellule che galleggiava pigro intorno a una sfera venata». L’app si chiama Flo, e l’esperienza di visualizzare lo zigote, poi embrione poi feto, comparato per dimensioni e forma prima a un pisellino poi a un fico poi a un’albicocca eccetera, è delle più comuni tra le donne che in quest’epoca si preparano a diventare madri. 



















































Altrettanto comune è l’esperienza social: «I brand ci misero 48 ore a trovarmi». Due giorni dopo il test di gravidanza positivo, su Instagram iniziano a spuntare pubblicità a tema. Vitamine prenatali, abbigliamento premaman, persino videogiochi di simulazione con la protagonista incinta. «Una volta che fui incinta, la pubblicità su Instagram si fece cosí personalizzata da sembrare intima, benché fosse esattamente il contrario: rappresentava l’annientamento della mia privacy. Gli annunci mirati mi raggiunsero prima che avessi trovato un ginecologo». 

Sono tra le prime righe di Un’altra vita (Einaudi, buona traduzione di Alessandra Neve e Isabella Zani), il memoir della gravidanza e del puerperio di Amanda Hess, giornalista del New York Times che scrive di cultura digitale e tecnologie. Le 260 pagine che seguono cuciono insieme alla storia di Amanda e del suo bambino «Alma» le tecnologie di oggi e le teorie pedagogiche, ginecologiche e persino eugenetiche del passato; la gravidanza e la fertilità; la puericultura e il femminismo. 

Hess, a suo agio con app, piattaforme social e device, li usa dapprima in modo entusiasta. Ma quasi subito, quando si scopre che il suo bambino ha un’anomalia genetica, la presenza delle voci esterne di influencer e dispositivi diventa inquietante. 

Il bambino – mi permetto uno spoiler perché questo libro vorrei lo leggessero le mie amiche in attesa, o madri da poco, che forse con questa apprensione supplementare non lo aprirebbero – finirà per stare bene. Nel frattempo però sua madre descrive bene l’assedio di voci «autorevoli» che la raggiungono settimana dopo settimana, ecografia dopo ecografia. 

Le utenti anonime della chat di Flo, che si augurano reciprocamente di concepire e descrivono i loro parti splatter terrorizzando le altre. Le newsletter su come vestirsi e come mangiare. I medici privi di empatia che Amanda incontra; i forum dove cerca disperatamente le conseguenze teratogene dell’ansiolitico assunto, una volta soltanto, per calmarsi dopo il test di gravidanza positivo. I gruppi Facebook delle adepte del «Free Birth», cioè il parto non ospedalizzato. I tutorial online sull’allattamento. Le tradwife di TikTok e i loro incanti domestici. Le voci delle app di domotica come il lettino autocullante, o la macchina per il rumore bianco, che informano i genitori nell’altra stanza che «il tuo bambino è tranquillo» o «ha bisogno di te». Le divulgatrici social che demoliscono i cartoni animati Disney, i cornflakes, i ciucci in plastica. I guru della «maternità consapevole» che parlano dei traumi inflitti ai millennial dai loro genitori, dicendo loro esplicitamente che saranno «i genitori migliori della storia», ma implicitamente anche che basta un piccolo errore e i loro figli saranno traumatizzati per sempre. I genitori dei gruppi di famiglie con bimbi dalle malattie rare, che si chiedono l’un l’altro «L’hai scoperto prima che nascesse?», «che era un altro modo per chiedere – scrive Hess – “lo hai scelto tu?”». Le pubblicità dell’industria dei test prenatali. I Reddit che li confrontano. La censura diffusa per ogni aspetto cosiddetto medicalizzato di gravidanza, parto, puerperio. 

Soprattutto le pubblicità, pubblicità ovunque, collegate a consigli, proposte dall’algoritmo, inviate via mail, come tasse sull’intimità di un momento miliare. Insomma l’esperienza media di una maternità in un Paese non povero e non in guerra, nell’anno del Signore 2025. Una dimensione a cui non è facilissimo sottrarsi. 

«Io voglio che su internet non ci sia traccia di mia figlia»

 Qualcuno, però, a sottrarsi ci prova. E spesso, senza sorpresa, sono persone che con i social e il digitale ci lavorano, e ne conoscono meglio gli aspetti più invadenti. Proprio come Amanda Hess. Claudia N., 35 anni, residente a Milano, è madre di una bambina di nove mesi. Da molti anni segue la comunicazione social di una grande azienda, e con i social media ha costruito una carriera. Dal quinto mese di gravidanza, però, ha disinstallato dal suo smartphone tutte le app dei social. 

Come Amanda Hess nel suo libro, anche Claudia racconta che «Instagram ha capito subito che ero incinta, e mi ha subito proposto contenuti a tema. Come molte donne in quella fase della vita ero molto agitata già di mio. Non ho una grande esperienza di bambini, sono cresciuta da figlia unica in una casa senza cugini o nipoti, mi sembrava di essere molto impreparata. Ho iniziato così a salvare un reel dopo l’altro. “I tre segni che il tuo bambino potrebbe essere autistico”. “Le tre posizioni da non assumere in gravidanza”. “Tre cose di cui hai bisogno per dormire bene in gravidanza”. “Se il tuo bambino fa questo movimento, potrebbe avere un ritardo”. “Il peggior errore di molti genitori”. “Cose che avrei voluto sapere prima di diventare madre”. E così via. Naturalmente, più salvavo questi contenuti più “addestravo” l’algoritmo a propormene altri, con relative notifiche su notifiche. Ma mi sono accorta molto presto che anziché sentirmi più preparata e competente mi sentivo più insicura. Come se mi mancasse qualcosa». 

E perché ti sembrava che questa insicurezza venisse dai social? 
«Perché parlando con le persone nella vita vera, le mie amiche, mia madre, i medici, le ostetriche del corso pre-parto, invece stavo sempre meglio. Lì sì che sentivo fiducia. Oppure leggendo libri, cioè ragionamenti articolati in più di trenta secondi di video da persone di chiara autorevolezza. Le voci dei social ho iniziato presto a detestarle. Mi sembravano sempre partire dal presupposto che ci fosse una mole infinita di nozioni e saperi a me totalmente ignoti, e che io potessi accedervi solo a pezzetti, a piccoli spezzoni da pochi secondi, che non bastavano mai». 

Così hai tolto Instagram. 
«Era l’ultimo social che davvero usavo. Il mio account ora esiste, ma devo accedere dal pc per usarlo, non ho più notifiche, posso vedere qualcosa ogni tanto ma non è più un’ossessione. Il mio tempo al cellulare si è ridotto del 25%. E anche questo va in una direzione che mi sono imposta. Da subito ho deciso che la mia bambina mi avrebbe vista assai poco con lo smartphone in mano». 

E come sta andando? 
«Non si torna indietro. Pensavo che sarei stata ancor più tagliata fuori dalle vite dei miei cari, dall’attualità, ancor più rinchiusa in una bolla domestica, ma non è andata affatto così. E tutti i contenuti cosiddetti “utili” che temevo avrei perso li ho appresi in altro modo. Pensa, non avevo bisogno delle “tre ricette senza glutine” di Baby Anna per svezzare mia figlia… e tutte le istruzioni per chiedere il congedo di maternità, l’assegno famigliare eccetera, guarda un po’, le ho chieste al Caf e al sindacato! Che mi hanno aiutata per davvero. Ricordo che avevo salvato un reel sulle dieci posizioni per partorire. Ma in sala parto c’è l’ostetrica…» 

A cosa hai rinunciato?
«A una cosa utile e a una inutile. Quella utile: per molti lavori, tra cui il mio, avere una personalità pubblica sui social è importante. Porta crescita professionale. A questa opportunità per il momento ho rinunciato, ma forse non ero bravissima a usarla neppure prima». 

E la cosa inutile? 
«I messaggi di congratulazioni delle migliaia di persone con cui sono in contatto sui social, del ragazzo incontrato sei anni fa al torneo di beach volley di Bibione, della compagna del ginnasio. Non voglio sminuire questa bottarella di endorfine: quando ti nasce un figlio sei così contento che molti non riescono a non condividere questo sentimento urbi et orbi. Ma il mio compagno e io non abbiamo avuto dubbi. Per noi ci sono cose più importanti, come la sicurezza della bambina». 

Tu lavori da sempre coi social. Davvero sono così minacciosi?
«So troppo sulla pedofilia e sui modi in cui una foto si diffonde, anche senza intenzioni cattive, per lasciare che circolino online foto della mia bambina. Io voglio proprio che sul web non ci siano tracce della sua esistenza, non ho scritto che sono diventata madre, non ho messo neppure la foto del piedino. Per l’algoritmo, che della mia gravidanza “sapeva”, diciamo, potrei averla data in adozione. Molte persone non sanno che sono madre. Gli amici ci capiscono. E ai parenti ogni volta che mandiamo una sua foto ingiungiamo di non condividerla nemmeno sul gruppo delle amiche con cui vanno a camminare, perché le foto circolano in modi che nessuno prevede». 

Negli ultimi anni sembra sempre più che i social siano una cosa da cui difendersi, non più un’opportunità divertente. È così? 
«Io lo penso. Ho una carriera costruita anche grazie alla cultura digitale, molte amicizie che ho sono nate o si sono approfondite sui social. Eppure col tempo ho capito che avevo più da perdere. La maternità poi è un formidabile acceleratore di questi processi. Ero molto vulnerabile e insicura, certo. Ma anche molto determinata a fare il meglio per la mia bambina, e la cosa pazzesca della gravidanza è che il meglio per il piccolo coincide con quel che è meglio per te. La tua calma è la sua, la tua nutrizione è la sua. E poi sei molto predisposta già a grandi cambiamenti, quindi puoi farne uno in più. C’è chi diventa vegetariano, naturalmente chi fuma smette. Io ho staccato i social, e sto molto meglio così».

20 ottobre 2025