Il Mediterraneo, tra la Corsica e l’Italia, vi unisce…
L.C.: «Per me è una storia di famiglia. Mia nonna è nata in Toscana e si è trasferita in Corsica perché aveva bisogno di lavorare. L’Italia per me è un modo di essere, è un linguaggio del corpo. È per questo che amo il cinema italiano degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, i film di Ettore Scola, dove tutto si muove, si vive, si grida… È qualcosa di molto intuitivo, primordiale, istintivo. E poi adoro cucinare. Cucinare, per me, è un atto vivo e vitale. Non preparo piccole dosi: faccio grandi piatti da mettere in tavola, in modo che ce ne sia abbastanza per tutti. La mia vita è diventata una sorta di commedia all’italiana molto piena, con quattro figli, di cui due veramente italiani. Si entra, ci si muove, si fa rumore, ma… Ecco, trovo che Eva abbia un volto da ritratto veneziano».
E.J.: «Ho un debole per l’Italia. È un luogo a cui si torna sempre. Un Paese in cui ogni villaggio, ogni piccola città riservano delle sorprese. E ha saputo conservare un’armonia visiva, come nei quadri antichi in cui, dietro al soggetto, si intravede un palazzo o una chiesa. Questo rapporto tra l’essere umano e il suo paesaggio mi piace molto. Come nei giardini barocchi, con l’idea della grotta e del grottesco, legata alla riscoperta della Domus Aurea, l’immenso palazzo di Nerone a Roma, alla fine del Quattrocento. E poi, il fatto che non sia il mio Paese crea una distanza feconda per il mio immaginario. Culturalmente, l’Italia è come il cuore di una stella, di cui i Paesi limitrofi sono i raggi. Guardate: sono stati i Paesi Bassi a perfezionare le tecniche della pittura a olio, ma sono stati gli italiani a riprenderle e a conferire a esse tutta la grazia».

Questo sguardo attento al passato la distingue dagli altri artisti di oggi?
E.J.: «Sono un’artista completamente contemporanea, ma vado a cercare forme che sono state centrali nella cultura europea e che purtroppo sono diventate periferiche, se non addirittura marginali. Se vuole sapere se avrei voluto fare il Grand Tour come gli inglesi del XIX secolo, la risposta è no. Avrei preferito inventare cose insieme ai Nabis, quei pittori francesi di fine Ottocento che sperimentavano nuove forme decorative, e guardare verso il Giappone».