di
Antonio Polito

La frase della segretaria dem nega «la patente di legittimità democratica all’avversaria, attribuendole una tendenza all’eversione»

Se ad Amsterdam ci fosse un Rubicone, Elly Schlein l’avrebbe varcato. Dire ai compagni socialisti europei che l’attentato a Sigfrido Ranucci dimostra che «la democrazia e la libertà di parola sono a rischio quando l’estrema destra è al governo», equivale infatti a negare la patente di legittimità democratica all’avversaria, attribuendole una tendenza all’eversione. Dirlo all’estero, poi, equivale a disconoscere al proprio Paese la qualifica di democrazia matura e stabile.

In sua difesa, la segretaria del Pd ha fatto appello al diritto di ritorsione, citando una scivolata polemica della premier Meloni che di recente ha accusato l’opposizione di essere «più fondamentalista di Hamas». Ma nella frase di Schlein c’è qualcosa di più, e di più grave di un giudizio politico, per quanto infondato: c’è l’accostamento a una bomba, a un atto di terrorismo. Se proprio si vuole trovare un precedente, si può dire che la performance di Amsterdam è un tentativo irresponsabile di lucrare su un fatto di cronaca così come lo fu quello di Giorgia Meloni a Bibbiano, quando si precipitò ad accusare il Pd di un traffico di bambini. Si vede che stare all’opposizione
rende nervosi.



















































Solo che sei anni fa, nel 2019, Meloni era poco sopra il 6%, e aveva il problema di farsi notare. Oggi Schlein è al 24%, e ha il problema di mostrarsi pronta a governare.

P erciò, messo da parte lo sconcerto che assale qualsiasi persona di buon senso nell’assistere a questa regressione della civiltà politica, c’è da chiedersi se il gioco vale la candela. Se, cioè, radicalizzando fino a questo punto il conflitto, e facendo sapere in giro che è fatto apposta, che è una strategia studiata a tavolino, l’opposizione possa trarne davvero un vantaggio di mobilitazione e di consenso.

Tre buoni motivi fanno ritenere di no. Il primo è che Meloni non è Berlusconi. E per quanto sia seducente ritentare il gioco delle «due Italie» che caratterizzò il suo ventennio, sperando che, come allora, prima o poi la metà ostile vinca, non è detto che funzioni. La strategia di rifare l’Unione di Prodi senza Prodi, del «tutti contro una», cozza contro quel vago alone di underdog che Giorgia Meloni esibisce ancora. Non era una donna potente e ricca quando arrivò a Palazzo Chigi; anzi, ha trascorso la gioventù alla Garbatella e in un partito ai margini. Come mobilitare la paura del regime contro una tale biografia? Un manipolo di reduci di Colle Oppio può spaventare quanto un impero televisivo e il suo relativo conflitto di interessi? E per quanto attiene al fascismo, Meloni ha vinto le elezioni quasi trent’anni dopo che i primi ministri post fascisti entrassero al governo: roba vecchia.

Il secondo motivo per cui l’elettorato resiste alla «demonizzazione» di Giorgia sta nella situazione internazionale. Insomma: con Nigel Farage in testa nei sondaggi in Gran Bretagna, Marine Le Pen a un passo dall’Eliseo, il partito quasi-neo-nazista che in Germania scavalca il cancelliere Merz, e con la Guardia nazionale mandata da Trump a tenere l’ordine nelle città americane, è difficile lanciare l’allarme «estrema destra» dall’Italia; contro una premier che al cospetto è una moderata, sostiene la Commissione Ursula, piega il deficit ai vincoli europei, e sta dalla parte di Zelensky con Parigi e Berlino, invece che con Mosca come Orbán e Fico.

Nemmeno la riforma della Giustizia si presta ragionevolmente ad essere imputata di «attentato alla Costituzione»: nel testo della Carta non si parla mai di unicità delle carriere dei magistrati. Anzi, persino un po’ ingenuamente, alti dirigenti del Pd confessano in queste ore che non faranno «una campagna referendaria in difesa dei magistrati», perché questi avrebbero «perso credibilità»; e che il referendum sarà in realtà contro Meloni, per fermare la sua «voglia di pieni poteri». Forse non è saggio rivelare già oggi che la materia del contendere è solo uno strumento per raggiungere un obiettivo politico.

Infine: nel Campo largo si dicono spesso convinti che basti l’unità, portare alle urne tutti i propri elettori e sommarli, per vincere le prossime Politiche. Ma un raffronto tra i risultati del referendum sul Jobs act, che produsse la massima e più trasversale mobilitazione «anti Giorgia», e gli ultimi risultati nelle Regioni, ci dice che quegli elettori non sempre si sommano e non sempre si mobilitano: in Toscana, per esempio, pur aggiungendo ai consensi di Giani quelli di Bundu, si arriva a 135 mila voti in meno di quanti ne ottenne il Sì al referendum di neanche quattro mesi prima. La crisi Appendino nei 5 Stelle nasce da lì: l’elettorato ex grillino non si aggiunge, quello piddino basta in Toscana, ma non in Italia. A Firenze è spuntata a sorpresa una Casa Riformista al 9%, ma è difficile immaginare un exploit del voto centrista per il Campo largo anche alle elezioni politiche, se continua una tale radicalizzazione a sinistra. Uno degli innumerevoli, ipotetici futuri leader della tanto desiderata «gamba» moderata, Ernesto Maria Ruffini, ha infatti appena dichiarato all’ Huffington Post : «Il Pd, per come lo abbiamo conosciuto, sembra non esserci più… Oggi segue lo schema di gioco della destra».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La newsletter Diario Politico

Se vuoi restare aggiornato sulle notizie di politica iscriviti alla newsletter “Diario Politico”. E’ dedicata agli abbonati al Corriere della Sera e arriva due volte alla settimana alle 12. Basta cliccare qui.

20 ottobre 2025 ( modifica il 20 ottobre 2025 | 09:43)