Nel volto in primo piano di qualsiasi atleta – se ci fate caso, se lo osservate con attenzione – vi si può intravedere la traccia di un turbamento. C’è sempre. Il più delle volte rimane silenziato e sottotraccia. Talvolta si manifesta. Con tutta la sua potenza, con tutto il suo dolore. E allora vale la pena raccontarlo. Per esorcizzarlo, per condividerlo, per superarlo. Meglio: per far sapere che si può superare.
Alice d’Amato, nell’estate più bella della sua vita, quella dei Giochi di Parigi 2024, ha vinto la medaglia d’oro nella trave. Scrivendo così una pagina leggendaria nel grande romanzo dello sport italiano. Nello sfogliare adesso il suo, di romanzo, la campionessa racconta che quella è invece una pagina strappata, un momento che segna un prima e un dopo, una fine che contiene un inizio, ma era difficile vederlo in quei giorni.
Il buio oltre la trave. «Quando ho vinto sono andata completamente in tilt. Ho scoperto un’altra me che non conoscevo. Cercavo di nascondere la mia sofferenza, fingevo sorrisi, ma poi alla fine sono sbottata». Il punto più alto, il punto più basso. Capita, come nel suo caso, che vadano a coincidere. Così D’Amato in un’intervista a Domani: «Credevo di riuscire a farcela da sola ma non ce l’ho fatta. Ma alla fine ho trovato il coraggio di dirlo. Ho sempre avuto il supporto e l’amore di mia madre, di mia sorella Asia, dei miei allenatori Marco Campodonico e Monica Bergamelli, del mio gruppo sportivo. Ho iniziato un percorso con una psicoterapeuta, mi sta aiutando veramente ad uscirne».
E’ successo a molti suoi colleghi. Gigi Buffon ha raccontato di aver sofferto di depressione. Si sistemava tra i pali della porta e si sentiva perso. Tutto gli sembrava non avere un senso. Ne è uscito, davanti a un quadro. Rimaneva lì per ore, cercando sé stesso. Quando si è ritrovato, ha ritrovato l’equilibrio. C’è chi si perde, invece. Come Paul “Gazza” Gascoigne, fenomenale calciatore inglese degli anni 80, acrobata della malinconia, bevitore incallito. Nella sua recente autobiografia ha scritto che per ogni dolore c’è un’origine. Lui per tutta la vita si è dato la colpa della morte di un suo compagno di giochi, un bambino che gli era stato detto di accudire e invece gli era sfuggito ed era stato investito da una macchina.
Di Andre Agassi si sa tutto. Open, come la sua autobiografia. Volendo, una seduta dallo psicanalista fatta in pubblico. I fantasmi della mente, quelli dell’anima. La favolosa Simone Biles ha raccontato del suo periodo nero: «Avevo i demoni nella testa, non avevo più fiducia in me stessa». Non era una giustificazione, era un selfie. E’ la vita che sposta l’inquadratura.
Ronaldo il Fenomeno alla vigilia della finale del Mondiale del 1998 ebbe delle convulsioni. Ci fu chi disse: un attacco di panico. Lui spiegò quello che non si poteva spiegare: «Non so davvero cosa mi sia capitato», disse. E’ la paura che reclama il suo posto nella nostra anima. Pep Guardiola tempo fa si prese un anno sabbatico spiegando: «E’ solo il tempo, che logora. Io sono stanco, e devo staccare la spina». La campionessa inglese Kelly Holmes, oro ad Atene 2004 negli 800 e nei 1500, rivelò che ogni volta che si presentava al via, guardava la riga per terra «…e temevo di cadere in un precipizio». Campioni fragili, vulnerabili, sotto lo schiaffo dell’angoscia. Capita? Capita. La tennista Naomi Osaka ad un certo punto ha sentito che il mondo che aveva sulle spalle pesava troppo. La depressione. La gravidanza nel momento meno atteso. Ha detto: «Ho bisogno di fermarmi». Poi se va bene, se si supera il buio, si torna a rivedere la luce. Ed è come iniziare una nuova partita.