Meloni, la linea del sostegno a Kiev. I dubbi sullo sblocco dei fondi russi

(Marco Galluzzo) Giorgia Meloni alla vigilia del Consiglio europeo, nelle sue comunicazioni alle Camere, ribadirà in primo luogo una posizione senza sfumature di appoggio all’Ucraina che è stata anche sottoscritta ieri da diversi Stati europei, compresa l’Italia. La dichiarazione fa esplicito riferimento al pieno utilizzo degli asset russi congelati in alcuni Stati europei, in primo luogo in Belgio.

Nella preparazione del discorso che oggi pronuncerà prima alla Camera e poi al Senato il capo del governo rimarcherà che Roma non ha intenzione di intavolare confronti bilaterali con Washington sui dazi, e in particolare sul mercato della pasta italiana esportata negli Stati Uniti, e che la posizione di Roma non cambia nemmeno sul dossier dell’assistenza a Kiev, che resterà massima, secondo le possibilità del bilancio italiano, sino alla fine della guerra.

Ma il solo accenno al bilancio italiano restituisce anche sfumature e dubbi di Palazzo Chigi sul piano che la Commissione e il suo pool di giuristi ed economisti stanno mettendo in piedi per aiutare Kiev. L’Ucraina ha bisogno di risorse finanziarie fresche, soprattutto dal primo gennaio, quando scadrà una delle principali linee di credito europee. Di fronte al disimpegno progressivo di Washington diventa dunque impellente il primo dei dossier che verranno discussi domani a Bruxelles: l’utilizzo degli asset russi congelati per 180 miliardi di euro.

Nei documenti che Meloni porterà con sé in Parlamento ci saranno diverse simulazioni sull’impegno italiano per arrivare a sbloccare quei soldi e girarli a Kiev. Giovedì si discuterà soltanto dei primi passi del progetto, ma l’approdo finale, a maggioranza, probabilmente a dicembre, sarà che ogni Stato europeo dovrà offrire delle garanzie scritte, che gravino sul proprio bilancio, nel caso in cui un domani la Russia vinca una causa internazionale contro il Belgio. Di sicuro il governo belga non ha nessuna voglia di rischiare il default.

Al Mef hanno già fatto i conti: la quota italiana di asset russi da scongelare, e che Roma dovrebbe garantire sul mercato, supera i 20 miliardi. È pronta l’Italia a firmare una cambiale simile? Esiste anche l’ipotesi che i Paesi europei diano via libera a maggioranza al progetto, ma poi offrano in totale garanzie singole inferiori e che dunque alla fine a Kiev, a gennaio, venga girata una cifra inferiore ai 180 miliardi.

I dubbi di Meloni, come del titolare del Mef, Giancarlo Giorgetti, sono in primo luogo contabili e finanziari, di sostenibilità per un’economia come quella italiana. Ma non è da escludere che da qui a dicembre nel dossier emergano anche le ritrosie di una parte della maggioranza di governo, leggi Salvini e Lega, nel dirottare questo denaro verso Kiev. Al momento quelli della premier sono dubbi, perplessità, e insieme una posizione realista che ha bisogno di dettagli concreti e definitivi per giudicare sostenibile o meno questa operazione.

Ma questi dubbi Meloni potrebbe sollevarli già giovedì in Consiglio, insieme almeno ad un altro capitolo sul quale l’Italia vuole avere voce in capitolo: cosa potrà comprare Zelensky con questi soldi? Quali paletti dovrà mettere l’Unione europea? Perché se è vero come dice il nostro ministro della Difesa, Giudo Crosetto, che «le armi non si trovano negli scaffali dei supermarket», è pur vero che sarebbe una beffa per la Ue se l’Ucraina usasse gli asset russi scongelati da Bruxelles per comprare armi americane.