Quando Camila Sosa Villada entra nell’auditorium del MART di Rovereto, tutti si voltano a guardarla. Non solo perché è fashionably late ma perché catalizza naturalmente su di sé ogni sguardo, come ogni grande attrice. Questo settembre, ospite del Festival Oriente Occidente, la scrittrice argentina ha presentato il suo ultimo libro, Scene da una domesticazione, edito in Italia da SUR.

Il festival, che quest’anno ha ruotato attorno al tema Corpi Assenti, ha intrecciato danza, musica e parola per «Dare forma a narrazioni spesso taciute». Un filo conduttore che si lega perfettamente alla poetica di Sosa Villada, da sempre impegnata a restituire voce e visibilità a ciò che il linguaggio dominante tende a rimuovere.

Tra le voci più potenti e originali della letteratura latinoamericana contemporanea, Camila Sosa Villada è diventata un caso internazionale con il suo romanzo d’esordio Las Malas, Le cattive (2021, SUR), che in Argentina ha venduto oltre 100mila copie ed è stato tradotto in più di 20 Paesi. Oggi è una delle scrittrici LGBTQ+ più note del Paese ma nella sua vita è stata anche prostituta, venditrice ambulante, addetta alle pulizie, attrice e cantante.

Dopo Le cattive, ha pubblicato la raccolta Sono una pazza a volere te (SUR, 2023) e Scene da una domesticazione (SUR, 2025), da cui è stato tratto un film prodotto da Gael García Bernal e Diego Luna. Un successo rapido ma tutt’altro che improvvisato. Forse anche per questo, quando Camila prende la parola, la curiosità in sala è palpabile.

Affronto il passato, prima che venga a cercarmi

Come vive il confine tra l’identità pubblica – quella filtrata dai social media – e quella privata? «Se sta sui social non è privato. Il privato è privato. Io lo vivo così. A porte chiuse. In ogni caso, scrivere è tradire la privacy: è portare fuori ciò che altri portano dentro».

Per Camila, i social media sono un inciampo accidentale, una necessità dovuta alla visibilità ma anche un divertimento. Lì costruisce un alter ego che non coincide mai con la persona che è realmente. È nei suoi libri, piuttosto, che il suo passato, spesso turbolento, prende corpo e si trasforma in linguaggio. Lo affronta, dice, prima che possa venirla a cercare. Scrivere è una contraddizione in un’epoca così permeata dalla sorveglianza pubblica, scrivere come fa Sosa Villada, è un modo per non tradirsi.

Attraverso la scrittura, Camila Sosa Villada affronta la realtà che la circonda, tenta di metterla a nudo. Svelando le forme sottili con cui il potere si nasconde nelle nostre vite e, allo stesso tempo, il velo dietro cui spesso ci nascondiamo. La voce temeraria di Sosa Villada è impietosa, ma anche necessaria, perché non offre risposte semplici. La scrittura, infatti, non è una risposta alla violenza: «Alla violenza si risponde con la violenza. I diritti non sono mai per sempre e non si smette mai di lottare. Le nuove generazioni non possono smettere di lottare».

L’amore come domesticazione femminile

Il suo lavoro attraversa costantemente i confini tra vita e finzione, corpo e testo, intimità e politica. Il cuore del suo ultimo romanzo è il rapporto tra potere e amore o, come lei lo definisce, l’amore come forma di domesticazione femminile. Un tema già accennato in Le cattive ma qui esplorato con lucidità spietata, che smonta gli ideali romantici della cultura mainstream.

«Credo che l’amore sia rassegnarsi, non a un’identità — quello è banale — bensì rassegnarsi a se stessa. L’identità non ha a che vedere con l’amore. La classe sì. Amore e libertà sono antitetici. Perché l’amore ti ricorda che l’altro ha un potere su di te. Che lo usi o no. Ed è una delle cose peggiori che ti possano capitare».

Per domesticazione, la scrittrice intende proprio l’assenza di uno spazio per essere se stessi, da un lato, ma anche arrendersi a ciò che diventa una relazione. Sosa Villada parla di «Un circo», in cui come addestratori «Premiano o puniamo chi amiamo a seconda di quello che fa». La domesticazione, nel romanzo, ha anche una seconda dimensione: quella del privilegio, della classe sociale, della perdita di autonomia.

Nelle sue parole, l’amore non è rifugio né promessa ma terreno di scontro tra identità. La libertà, per la scrittrice argentina, si conquista nella solitudine. Un rifiuto netto alla retorica romantica, ma anche uno spiraglio sulla natura politica del desiderio, spesso nascosta.

«L’amore è un sentimento molto complesso che gode di un grande marketing, che viene usato per addomesticare le donne e obbligarle ad avere figli, ma che spesso è anche molto crudele». Così, la sua scrittura diventa uno strumento rivoluzionario per confrontare la realtà. Scene da una domesticazione è un libro che interroga e obbliga il lettore a riformulare ciò che pensa di sapere sulla libertà, l’amore e il proprio corpo.

Cosa sogna Camila Sosa Villada?

A proposito di identità, le cito una frase di Almodóvar: «Una donna è tanto più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di se stessa». Cosa sogni: «Sogno regolarmente la fine del mondo. Sogno che mi inseguono per strade sterrate per stuprarmi. Sogno le mie zie, mia madre, mio padre. Sogno animali domestici e acqua limpida».

E quali sogni ha realizzato? La risposta è tagliente: «Contrariamente a quanto si dice in giro, non lavoro per realizzare i miei sogni. Sono una travestita degli anni ’90, e inoltre sono acquario; il mondo cupo dei sogni non è qualcosa che tengo in considerazione».

Per lei, i sogni sono fantasmi o sintomi, in termini analitici. «Spesso travestiamo le nostre ambizioni da sogni solo per rendere il lavoro più sopportabile», aggiunge. Un errore che lei non commette: «No, no, no. Ambisco a delle cose, questo sì. Montagne di soldi. E quelle, proprio perché sono ambizioni, le ho ottenute». Scrivere, dice, è anche un tradimento al suo successo, perché serve a rivangare tutto il suo vissuto. E poi, scoprire che non succede niente di brutto a fallire. «Permettersi di fallire – dice Camila Sosa Villada – è un regalo in questo mondo così brutto», conclude con sagacia.