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«Il mio Asprinio è ironico, tagliente, sarcastico. Ha fatto della sua vita un atto politico». Vincenzo Nemolato, 36 anni, è coprotagonista della serie in sei episodi “Noi del Rione Sanità”, in partenza stasera su Rai Uno in prima serata (ore 21.30) per la regia di Luca Miniero, una coproduzione Rai Fiction – Mad Entertainment – Rai Com. Ispirato al libro omonimo di Don Antonio Loffredo, il progetto racconta la profonda anima del difficile quartiere napoletano che si fa paradigma sociale e portavoce di tutte le periferie. Visionario e dall’animo imprenditoriale, Don Antonio è un uomo nato con la vocazione di salvare le anime con azioni concrete. Comprende da subito che deve cambiare lo sguardo dei ragazzi senza futuro nati e cresciuti nel rione Sanità, avvicinandoli al potere salvifico della bellezza e dell’arte, risorse preziose per guarirsi e risanare l’intero quartiere.
APPROFONDIMENTI
Nel dare il suo assenso affinché la sua vicenda prendesse vita sul piccolo schermo, Don Antonio ha fatto solo una richiesta: che il protagonista si chiamasse come il suo predecessore di cui ha continuato l’operato. E così Carmine Recano è Don Giuseppe Santoro, affiancato da Bianca Nappi come Suor Celeste, Nicole Grimaudo che interpreta Manuela, mentre Tony Laudadio è il sacrestano Lello. Il “chierichetto” di oltre trent’anni di Nemolato fa da collante tra Don Giuseppe e gli abitanti della Sanità, da subito chiusi e diffidenti nei suoi confronti nella serie, ma non nella realtà: «Siamo stati ben accolti, anche se girare in quartieri così difficili – ha raccontato Nemolato – diventa un’esperienza e per la produzione una sfida.
Quando una macchina grande come il cinema o la tv entra in una realtà che ha già i suoi equilibri c’è bisogno di molta tolleranza».
Qual è stato il suo approccio al personaggio di Asprinio?
«Il regista mi ha dato grande fiducia e io ho cercato di evitare di cadere in cliché, poiché incarna il tema della sessualità. Rappresenta infatti l’antica tradizione dei femminielli napoletani, cioè uomini con modi ed espressività marcatamente femminili molto presenti nelle parrocchie di quartiere. Ho voluto dargli una sfumatura da commedia, partendo dalla maschera di Pulcinella. Il pubblico vedrà Asprinio diviso tra qualcosa che vuole mostrare e qualcosa che vuole proteggere».
Conosceva l’operato di don Antonio Loffredo?
«Lo conoscevo sì. Ma lavorando a “Noi del Rione Sanità” mi sono reso conto dell’abilità che ha avuto nell’abbandonare ogni retorica e formalità religiosa per crearne una su misura e più adatta al quartiere. Sento questa cosa ogni volta che parla e mi ha ricordato un altro parroco, Don Vittorio, che ho conosciuto quando vivevo a Scampia e in cui trovavo un punto di riferimento».
Il teatro per i ragazzi della fiction diventa un’alternativa di vita, una salvezza. Per lei cos’è stato?
«Sono nato e cresciuto a Scampia, poi ho vissuto a Forcella da solo e ora vivo nei Quartieri Spagnoli. Il teatro in gioventù mi ha cambiato la vita. Quando decisi di frequentare il laboratorio teatrale Arrevuoto a Scampia non sapevo niente, andavo lì per stare con i miei amici, ma mi sono innamorato del teatro. Ricordo che lavoravo in un’azienda e avevo già deciso di iscrivermi a economia».
E poi cos’è successo?
«Una scena da cinema. Mi ricordo un giorno che, ritrovandomi sul motorino, dovevo decidere se andare a lavoro o recarmi a teatro. Gli orari erano pure gli stessi. In sella alla mia Vespa comincio a pensare: “Dove vado?” e alla fine ho scelto il teatro. Il mio mentore Marco Martinelli quando mi vide arrivare da lontano esultò: ‘Bravo Vincenzo, hai scelto il teatro”».
La figura del padre è molto presente nella serie e lei lo diventerà tra qualche mese. Cosa vorrebbe insegnare a suo figlio?
«Premetto che mi spaventa tutto della paternità, ho paura di non essere adeguato. Desidero trasmettergli i valori che mi hanno aiutato e mi aiutano ancora oggi. Il contesto in cui si nasce e cresce può cambiare e influenzare le nostre vite, però la presenza dei genitori è importante per educarli e giocare insieme. Io non sono mai stato un adolescente a rischio. Mio padre e mia madre mi hanno insegnato a costruire dei sogni, il valore dello studio e vivevo in un contesto difficile, ma tutto quello che ho vissuto è la mia arma segreta. Posso dire di essere stato più fortunato di tanti miei amici».
Ha un viso particolare. È stato più un vantaggio o uno svantaggio in carriera?
«Il Vincenzo del liceo avrebbe voluto cambiare naso, ma oggi le mie caratteristiche sono la mia forza. Non devo per forza rientrare in canoni classici o estetici. Essere così come sono mi distingue dai classici ‘belli’».
Crede che questa sua unicità possa farla arrivare oltreoceano?
«Incontro tanti colleghi che hanno già l’intenzione di affrontare mercati esteri, ma io non c’ho mai pensato. Il focus della mia carriera rimane raccontare storie. Non sopporto gli attori che abbandonano progetti più piccoli. So che posso arrivare a fare ruoli da protagonista, ma c’è bisogno di un percorso nazionale più solido. Io mi sento fortunato ad essere italiano, sono fan del nostro cinema».
Ha lavorato con tanti grandi nomi, da Matteo Garrone ai fratelli Taviani. Chi le manca?
«Mi piacerebbe fare qualcosa con Jonas Carpignano, Giacomo Abruzzese e Leonardo Di Costanzo».
Ma un horror? Visto la sua sopracitata unicità…
«Stuzzicare le corde più intime di un attore. Sogno di fare personaggi cattivi e in un horror mi piacerebbe interpretare sia la vittima che il carnefice. Magari un Dexter napoletano, perché no?».
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