REGGIO CALABRIA Dopo la presentazione alla ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma, nella sezione Special Screening, il documentario Brunori Sas – Il tempo delle noci, diretto da Giacomo Triglia, sarà prossimamente disponibile dal 9 novembre su RaiPlay.
Il film, presentato da Rai Documentari e prodotto da Pier Giorgio Bellocchio, Manetti bros. e Désirée Manetti per Mompracem, in collaborazione con la Calabria Film Commission, racconta un viaggio intimo e profondo nell’universo creativo di Dario Brunori, con cui Triglia condivide un lungo percorso di collaborazione artistica. Abbiamo incontrato il regista reggino per parlare del film, ma anche del suo percorso umano e professionale.

Giacomo, sei appena tornato dalla Festa del Cinema di Roma. Com’è stata l’esperienza?

«È stato molto bello. Anche impegnativo, devo dire, perché abbiamo fatto interviste una dietro l’altra — la classica maratona da ufficio stampa per la promozione del film. Però è stata una bellissima esperienza, soprattutto poterlo vedere finalmente sul grande schermo, tutti insieme. Era la prima volta che lo vedevamo così: in studio l’effetto è completamente diverso. Sullo schermo della Sala Sinopoli da 1200 posti, che è la sala più grande dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, è stato molto bello vederlo lì, tutti assieme».

Com’è nata l’idea di realizzare Il tempo delle noci?

«Non è la prima volta che facciamo un documentario legato alla lavorazione di un disco. Già nel 2017, per A casa tutto bene, avevamo realizzato un progetto simile per Sky.
Questa volta però non volevamo fare qualcosa di strettamente legato al disco. L’intento era più ampio: volevamo raccontare anche temi come la famiglia, la paternità e, in generale, il gesto creativo.
L’idea era che anche chi non conosce bene Brunori o la musica potesse essere affascinato dal processo artistico: osservare Dario e Riccardo Sinigallia, produttore artistico del disco, lavorare fianco a fianco per costruire qualcosa. Poteva essere un album, certo, ma anche un film o qualsiasi altra forma d’arte. L’importante era mostrare la creazione in atto.»

Nel documentario si percepisce una grande naturalezza, anche nelle fasi più delicate. Quanto ha influito la vostra lunga collaborazione?

«Tantissimo. Il fatto di conoscere Dario da anni ha aiutato molto. Ci sono momenti in studio che possono essere delicati — discussioni, divergenze, momenti di tensione creativa — e avere qualcuno con cui hai un rapporto di fiducia fa la differenza. La camera non inibisce, non disturba: diventa quasi invisibile. È come se non ci fosse nessuno, e questo permette di catturare la verità.»

Quanto tempo avete impiegato per girare e montare il film?

«Abbiamo iniziato nel 2022, durante il tour nei palazzetti. Poi abbiamo fatto circa venti giorni di riprese durante la registrazione del disco alla Cantinella, in quattro sessioni diverse.
Ci sono anche materiali d’archivio legati alla sua infanzia e adolescenza, vecchi video e messaggi che Dario si scambiava nelle fasi iniziali del lavoro. È un racconto molto stratificato. Poi c’è Sanremo, ma io non sono andato, volutamente: era una settimana troppo impegnativa, e ho preferito lasciarlo più tranquillo. Abbiamo comunque avuto materiale di backstage che ci è tornato utile in montaggio.
Abbiamo lavorato parecchio al montaggio: la montatrice è di Roma, e abbiamo lavorato spalla a spalla per una settimana, poi a distanza sulle varie versioni».

Ci sono state difficoltà particolari durante la realizzazione?

«Sì, sicuramente il dover sacrificare alcune parti di intervista molto interessanti. Per ragioni di durata, ovviamente, devi fare delle scelte: trovare un equilibrio umano e narrativo. Però credo che il pubblico abbia accolto molto bene il risultato finale, e questo ci ha ripagati».

Torniamo un po’ indietro: sei reggino doc. Quanto ha contato la tua formazione a Reggio Calabria?

«In realtà sono autodidatta. All’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria ho studiato pittura, quindi la mia formazione non ha un legame diretto con quello che faccio oggi. Tutto ciò che so sul linguaggio cinematografico l’ho imparato da solo, per passione.
Sin da ragazzo ero innamorato del cinema: guardavo tutto quello che trasmetteva Rai Tre e i programmi di Enrico Ghezzi, programmi iconici come “Blob” e “Fuori orario. Cose (mai) viste”, che hanno rivoluzionato la televisione e l’approccio al cinema sul piccolo schermo, spesso film d’autore, e da lì ho iniziato a sperimentare. Ho girato i miei primi cortometraggi, poi nel 2004 ho partecipato al Torino Film Festival. Da lì sono arrivati altri festival, e nel 2009 è avvenuto l’incontro con Dario Brunori».

Un incontro decisivo.

«Assolutamente. Ci siamo conosciuti durante un festival che curavo a Reggio Calabria, dove avevo la direzione artistica. Poco dopo mi sono trasferito a Cosenza, anche un po’ per sfida.
Lì c’era un fermento musicale fortissimo, e naturalmente ho proposto a Dario di girare il suo primo videoclip, Come stai. È andato subito molto bene, e grazie alla sua musica e al suo talento quel video è diventato una vetrina importante. Da lì sono arrivati tanti altri artisti che mi hanno cercato per raccontare le loro canzoni».

Molti artisti ti scelgono per il tuo sguardo, hai firmato oltre duecento videoclip musicali da Jovanotti ad Annalisa (solo per citarne alcuni) e numerosi spot e docufilm per grandi marchi. Sei uno dei registi più versatili e riconoscibili della scena audiovisiva italiana, capace di coniugare estetica e sensibilità narrativa in ogni progetto, dalla musica alla pubblicità. Secondo te qual è la chiave del tuo successo?

«Credo che la chiave sia la sensibilità. Cerco sempre di entrare nel mondo dell’artista, di comprenderne i silenzi, i dubbi, i gesti.
Non mi interessa solo “documentare” una canzone, ma tradurre in immagini un’emozione. Penso che gli artisti percepiscano questa attenzione e questo rispetto. È da lì che nasce la fiducia, e forse anche il mio successo: dalla verità che cerco in ogni storia».

Vivi ancora in Calabria?

«Sì, sono a Cosenza, ma torno spesso a Reggio: lì c’è la mia famiglia, è casa. Il mio lavoro però mi porta spesso a Roma e Milano, quindi faccio avanti e indietro. È un equilibrio che mi piace: mi permette di mantenere le radici ma anche di lavorare dove si muove l’industria».

E i prossimi progetti?

«L’obiettivo adesso è l’Opera prima, il film. Sto lavorando a due sceneggiature con altri autori. Vedremo quale delle due prenderà per prima la luce. In ogni caso, l’obiettivo è continuare a raccontare storie vere, che parlino di persone, emozioni e cambiamento». (redazione@corrierecal.it)

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