Cosa pensa la leadership cinese dell’America (oppure, che cosa vuole che ne pensino i cinesi…)? Che è uno «Stato fallito». Diagnosi tremenda, perfino offensiva. Ma è proprio quello che si può leggere su un importante giornale governativo di Pechino. 

Grazie alla segnalazione di Bill Bishop e alla sua preziosa newsletter Sinocism, eccovi uno squarcio nel linguaggio corrente che i dirigenti cinesi usano a proposito dell’altra superpotenza. Al termine di questo estratto aggiungo qualche mia considerazione, più un’altra lettura, per situare il contesto. 



















































Il commento sul Beijing Daily è stato pubblicato mentre i responsabili politici cinesi si preparavano a delineare piani economici a lungo termine, in un contesto di competizione sempre più intensa con Washington. Eccone la sintesi e alcuni estratti: 

«Dov’è la dignità di una grande potenza? Per decenni gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro immagine scintillante grazie all’egemonia globale, ma ora sono entrati in una spirale discendente di declino», afferma il giornale governativo (la precisazione è quasi superflua: nella Repubblica Popolare i media sono tutti controllati dal governo, questo però è fra gli organi più accreditati, ndr). 

«L’aureola è sempre stata un’illusione, e il mito era fragile. Per usare le stesse parole di Trump: l’America, sotto molti aspetti, è diventata uno Stato fallito, sta “morendo dall’interno”». (Per essere precisi, Trump in campagna elettorale nel suo dibattito televisivo con Biden a inizio estate 2024 parlò in realtà di «failing nation» descrivendo l’America come una nazione che sta fallendo; «Stato fallito» invece è un’espressione che si usa per paesi poveri dove le istituzioni sono sfasciate e non riescono a fornire ordine pubblico, sicurezza, e altri servizi di prima necessità, ndr). 

«Gettando torrenti di “fango”, lasciando volare “parole sporche”… Che la si guardi o meno attraverso un filtro, è difficile capire: com’è possibile che la politica americana sia diventata così priva di dignità? Rispetto al teatro politico che si svolge sulla scena, la realtà americana è forse ancora più imbarazzante? Basta guardare gli Stati Uniti da inizio anno. All’inizio dell’anno, gli incendi di Los Angeles hanno bruciato l’aureola di Hollywood. La gente ha scoperto che il tanto ripetuto mantra americano dell’“uguaglianza per tutti” era solo una frase vuota; la decantata dinamicità del sistema americano si è rivelata debole; e l’interesse politico personale ha avuto la precedenza sulla vita umana. Da marzo, il governo degli Stati Uniti ha messo in scena una farsa: “Usare i dazi per imporre estorsioni al mondo intero”. Il suo volto avido e capriccioso è diventato odioso. La frase di Trump, “molti Paesi si affrettano a leccarmi il sedere”, ha messo a nudo la sua arroganza e presunzione — e ha abbassato ulteriormente l’asticella della volgarità. A metà anno, lo spettacolo della rottura fra Trump e Musk non solo ha mostrato come il “duetto tra potere e capitale” guidi la politica americana, ha anche chiarito che “prima gli interessi, ognuno per sé” è la logica fondamentale della politica degli Stati Uniti. Episodio dopo episodio si è strappata la splendida veste di Zio Sam, lasciando esposto il disonore dell’impero e facendo improvvisamente capire al mondo: ecco cos’è l’America — questa è la vera America. L’aureola è un miraggio; il mito è fragile. Per usare le parole di Trump: sotto molti aspetti, gli Stati Uniti sono diventati uno Stato fallito, che “muore dall’interno”. 

Qui si conclude l’estratto dal giornale cinese. Per capirne la portata, è bene sapere che la propaganda cinese non è mai stata tenera con gli Stati Uniti. Metterne a nudo i problemi, dalla criminalità alle sparatorie, dalle diseguaglianze alla litigiosità politica, è sempre stato un modo per dire implicitamente ai cinesi: non vi fate tentare dalle sirene della democrazia, è un sistema politico molto peggiore del nostro. Queste descrizioni vengono somministrate al popolo cinese da molti anni, non sono specifiche dell’era Trump. 

Se c’è stato un momento di svolta, in cui il linguaggio di Pechino è diventato più severo, è il 2008. Quell’anno, con la crisi dei mutui subprime, il fallimento Lehman, il crac di Wall Street e poi la grande recessione che dall’America si è propagata a tutto l’Occidente e anche ad altre parti del mondo (ma non in Cina), la nomenclatura comunista ha avuto una sorta di «Epifania», la rivelazione plateale – almeno dal suo punto di vista – della superiorità del suo modello.

Poi nel 2012 è arrivato al potere Xi Jinping, ultra-nazionalista e arciconvinto che l’America è in declino, la Cina in ascesa. Da allora i toni con cui i media cinesi descrivono «l’inferno» americano sono ancora più accesi. Malato terminale, civiltà malata e moribonda, avviata verso il crollo: sono temi ricorrenti da molti anni quando la nomenclatura comunista cinese parla dell’America. 

Non è detto che questa propaganda faccia davvero presa sulla popolazione. Non tutta, perlomeno. In un recente incontro con delle studentesse cinesi a Cornell, il Politecnico sulla Roosevelt Island di Manhattan, le ho sentite intenzionate a non tornare in patria al termine degli studi bensì a trovarsi un lavoro in America: il dislivello di paga è troppo elevato, mentre il mercato del lavoro cinese langue e la disoccupazione giovanile tra neolaureati è altissima. 

A questo proposito vi propongo qui sotto la sintesi di un reportage del Wall Street Journal, firmato da Hannah Miao, sul male oscuro che affligge l’economia cinese e che viene chiamato «involuzione»: La Cina vive una crisi silenziosa, ma profonda. Il motore della sua crescita — la competizione — si sta trasformando in una trappola. L’eccesso di concorrenza, anziché stimolare innovazione e produttività, erode i margini di profitto, deprime i salari, e alimenta una spirale deflazionistica. 

È la «involution», parola divenuta celebre tra i giovani cinesi, oggi usata anche dagli economisti per descrivere un sistema economico che si logora in un affanno senza progresso. Il termine «neijuan», nato in ambito antropologico, significava originariamente «sviluppo senza avanzamento». 

In Cina è diventato sinonimo di una società bloccata in una competizione sterile: scuole, uffici, fabbriche dove tutti corrono più veloci, ma restano fermi. Una condizione psicologica e sociale che riflette un meccanismo economico di fondo: troppa offerta, poca domanda, prezzi in caduta, profitti evaporati. Negli ultimi anni, la leadership di Xi Jinping ha reagito al crollo del mercato immobiliare spingendo la manifattura come leva anticrisi. 

Prestiti, sussidi, incentivi fiscali si sono concentrati nei settori high-tech: auto elettriche, pannelli solari, batterie, robotica, semiconduttori. Ma questo «keynesismo industriale» ha prodotto un effetto perverso: un eccesso di capacità produttiva che genera guerre dei prezzi e deflazione. Nel settore automobilistico si contano più di cento produttori di veicoli elettrici. La concorrenza è così estrema che molte aziende vendono sotto costo. 

Il gigante BYD, simbolo del «miracolo elettrico» cinese, offre modelli a meno di 8.000 dollari. Solo il 30% dei concessionari è in utile. Gli altri sopravvivono tagliando stipendi, riducendo personale, comprimendo ogni anello della filiera. Il risultato è un paradosso: mentre la Cina vuole conquistare la leadership globale nelle tecnologie del futuro, la sua economia interna si avvita in una corsa al ribasso. I prezzi al consumo restano fermi, quelli alla produzione calano da quattro anni consecutivi. Il potere d’acquisto delle famiglie ristagna. 

I giovani lavoratori scherzano amaramente su un nuovo ritmo di lavoro: dal vecchio «996» (dalle 9 alle 21 per sei giorni) si è passati al «007» (tutto il giorno, tutti i giorni). L’involution ha dunque una doppia faccia: economica e sociale. È il prezzo di un modello di sviluppo basato su investimenti e produzione, non su consumi e redditi. La Cina produce troppo, consuma troppo poco. L’ossessione dell’autosufficienza industriale — il sogno di Xi di rendere la Cina indipendente dall’Occidente nelle tecnologie avanzate — spinge a una sovrapproduzione cronica che deprime la domanda e comprime i salari. Il fenomeno non è nuovo. 

Già un decennio fa Pechino aveva dovuto affrontare l’eccesso di offerta nell’acciaio e nel carbone, chiudendo impianti «zombie» e imponendo limiti produttivi. Ma allora la crisi riguardava le imprese statali. Oggi investe anche il settore privato, in comparti come l’elettronica, i veicoli elettrici e i servizi digitali.

 È una malattia sistemica, non più confinata a un singolo settore. Le implicazioni geopolitiche sono rilevanti. Le industrie cinesi, schiacciate da una domanda interna debole, cercano sbocchi all’estero. Da qui la nuova ondata di esportazioni a basso costo che preoccupa Stati Uniti, Europa e Paesi emergenti. Washington, che ha riacceso le tensioni commerciali sotto la seconda amministrazione Trump, considera questa vulnerabilità una leva negoziale: la Cina ha più da perdere in una guerra dei dazi. Gli economisti concordano: finché Pechino non ridurrà la dipendenza da investimenti e produzione, la spirale deflazionistica continuerà. 

«L’involution è al tempo stesso un pregio e un difetto del modello cinese» sintetizza Larry Hu di Macquarie. Pregio, perché rivela una straordinaria capacità produttiva. Difetto, perché non è sostenibile nel lungo periodo. Le ricette proposte dagli analisti internazionali convergono: bisogna stimolare i consumi. Significa restituire fiducia ai risparmiatori, rianimare il mercato immobiliare, potenziare il welfare, riformare il sistema fiscale e dare più spazio ai servizi. 

Il Fondo Monetario Internazionale invita Pechino a «spostare il baricentro» dell’economia verso la domanda interna, riducendo il peso delle politiche industriali. Ma la transizione è difficile. Il Partito Comunista teme che ridurre la produzione possa provocare un crollo della crescita e disoccupazione di massa. Così si procede con cautela: linee guida per vietare la vendita sotto costo, incentivi a ridurre la capacità produttiva nei settori saturi, restrizioni ai nuovi investimenti. 

Negli ultimi mesi qualche segnale incoraggiante è apparso: la deflazione dei prezzi alla produzione si è attenuata, i profitti industriali sono risaliti del 20% in agosto. Tuttavia la ripresa resta fragile. Un editoriale del People’s Daily ha ammesso le difficoltà, ma le ha definite «dolori di crescita» di una trasformazione inevitabile verso un’economia tecnologica più sofisticata. 

In altre parole: Pechino non intende abbandonare la rotta dell’industrializzazione avanzata, anche a costo di prolungare la fase dolorosa dell’involution. In sintesi, la Cina si trova a un bivio: o accetta di rallentare per riequilibrare il suo modello economico, o continuerà a correre a vuoto, vittima di quella stessa concorrenza che un tempo ne rappresentava la forza. L’involution non è solo un problema economico. È il simbolo di una civiltà che ha spinto al massimo la logica della performance, fino a trasformarla in autolesione collettiva.

25 ottobre 2025