What a time to be alive, vero? Lo avete sentito dire o letto in molti meme in chiave ironica, ma gli ultimi venticinque anni almeno non sono stati esattamente una passeggiata nel bosco. O magari sì, ma era quello di The Blair Witch Project. L’attentato alle Torri Gemelle, la guerra in Iraq, un paio di crisi economiche, la pandemia, la guerra tra Russia e Ucraina, quella ancora più recente tra Israele e Hamas, l’Italia che non si qualifica per due volte consecutive ai Mondiali, il caso Mark Caltagirone, il frat’m ingiustamente soppresso Harambe… di motivi per nascondersi sotto al letto e farsi travolgere dall’ansia ce ne sarebbero pure parecchi, ma per fortuna che c’è il cinema! Che arte fantastica! Quando sembra che il mondo stia finendo, basta mettere su un bel film e per un paio d’ore passa tutto, vero Kathryn Bigelow? Kathryn? No, aspetta… cosa stai facendo? Kathryn, fermati! NO, TI PREGO, NO!
Che grande film che ha fatto, la Bigelow. Otto anni dopo Detroit (meh), la regista premio Oscar è tornata e, come suo solito, non ha portato conforto ma anzi ha deciso di ricordarci che, se il mondo dovesse finire, probabilmente nessuno saprebbe cosa cazzo fare davvero. Un film di guerra senza battaglie, di catastrofi senza effetti speciali, di potere senza potenza: l’ennesima prova che Bigelow è Gran Maestra Mondiale di trasformare l’ansia globale in un’esperienza personale e sensoriale. L’incipit di A House of Dynamite è semplice, quasi scolastico: viene rilevato un missile nucleare in rotta verso gli Stati Uniti. Nessuno sa da dove sia partito né perché, si sa solo che mancano diciannove minuti all’impatto, vissuti in tre tranche e altrettanti punti di vista alternativi. È la scintilla che innesca l’apocalisse più burocratica mai messa su schermo dai tempi di Shin Godzilla – quel magnifico bisteccone che non a caso è nato come personificazione della violenza e dell’odio per l’umanità, del pericolo atomico post Seconda Guerra Mondiale, lo stesso che viene rievocato qui a modo suo. Dai radar in Alaska alla Situation Room della Casa Bianca, il panico viaggia più veloce della testata nucleare: la Bigelow rinuncia a ogni spettacolo pirotecnico per concentrarsi sui corridoi, sulle chiamate Zoom, sulle voci che si accavallano, sulle facce che non sanno fingere sicurezza. Se non fosse per un paio di scene ambientate in macchina, saremmo dalle parti del cinema da camera costruito come un incubo collettivo, dove l’orrore non è la bomba in sé ma l’impreparazione di chi dovrebbe gestire la situa.
«Una prosciutto e funghi, una diavola con poco pomodoro e… un secondo che ho un allarme nucleare sull’altra linea»
A House of Dynamite è un film che si muove con la precisione di un orologio atomico e l’emotività di un attacco di panico, dove tutto è orchestrato sfruttando quello che ormai è il vero marchio di fabbrica della regista di The Hurt Locker e Zero Dark Thirty: l’ultrarealismo, la cura maniacale per ogni dettaglio tecnico (quantomeno nella messa in scena, vallo a sapere poi se in realtà stanno parlando tutti per acronimi che non esistono). È il suo modo per farci sentire lì, nel cuore della catastrofe, mentre nessuno sa cosa stia davvero succedendo. Le procedure, i linguaggi, le esitazioni: niente suona inventato. Perfino il famigerato “manuale nucleare” – quello che il Presidente deve consultare per ordinare il contrattacco, contro non si sa chi e non si sa perché, ma intanto facciamolo e poi si vede – è stato ricreato con un rigore documentale che sfiora il sadismo. Eppure, nonostante il realismo insistito (Noah Oppenheim, lo sceneggiatore, ha consultato veri funzionari del Pentagono, della CIA e dello Strategic Command), la sensazione è che A House of Dynamite non sia un film “militare”, ma esistenziale. Il missile in fin dei conti non è altro che un bel MacGuffin: il vero detonatore è la coscienza e le reazioni dei protagonisti.
«Signora, che luci ci sono accese ora? Sul modem, non in casa sua…»
Il punto non è chi o cosa, ma osservare con spietata lucidità cosa succede quando le strutture di potere vengono costrette a scegliere, e scoprono di non avere non solo nessuna certezza morale, ma anzi di essere intrappolate a loro volta in una serie di protocolli dai quali neppure il Presidente degli Stati Uniti (Idris Elba, che passa su Netflix dopo quel gigaspottone alla NATO visto su Prime Video) è in grado di sfuggire. Kathryn Bigelow è da sempre ossessionata dal potere come dispositivo fallibile e anche in questo caso non ci dice che siamo al sicuro: ci mostra quanto sia fragile l’idea stessa di controllo. Lo aveva già fatto con il disinnescatore di The Hurt Locker e con l’analista di Zero Dark Thirty: eroi di professione che si consumano nella loro competenza. Stavolta, però, la tragedia è collettiva. Tutti credono di sapere cosa fare, nessuno lo sa davvero. Volendo ben vedere, è un film che si presta benissimo per un double bill con un altro film recente: Il mondo dietro di te, altro piccolo fenomeno di Netflix firmato da Sam Esmail (Mr. Robot) che seguiva l’inizio di un apocalisse globale tenendo il punto di vista ristretto di una famiglia che non ha la minima idea di cosa stia accadendo. Succede la stessa cosa qui, ma il focus è nelle stanze del potere. In controluce si intravede anche La zona d’interesse di Jonathan Glazer, per quella sua terrificante ma straordinaria capacità di trasformare il non-detto in terrore puro: la consapevolezza che l’orrore vero sta nella routine.
Scherzo dai, il vero double bill da fare è con Heads of State. Una volta c’erano i ruoli per i capi di Stato, oggi li fa tutti Idris Elba.
A House of Dynamite parla di guerra nucleare, ma ci manca poco che sia un documentario sul nostro presente. Viviamo in un mondo e in una società che ormai si sta abituando ed anestetizzando a ogni minaccia, dove un’allerta missilistica dura quanto un trend su X. Bigelow lo sa e lo sottolinea, perché qui viene restituita quella stessa sensazione di collasso normalizzato. Per ricollegarmi alla premessa iniziale, ma vi ricordate quelle due settimane folli che abbiamo vissuto a giugno 2025? Quando gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iran per distruggere alcuni siti nucleari per “prevenire” un possibile attacco a Israele (fa niente che siano almeno vent’anni che viene detto che l’Iran è vicina ad avere l’atomica, roba alla Samuel Beckett: Aspettando Teheran). Ricordate che il feed di Facebook o del vostro buco nero di attenzione preferito era invaso non solo da post sull’argomento scritti dal vostro macellaio di fiducia improvvisatosi esperto di geopolitica, ma anche da meme e video di quel CEO sfortunatamente beccato a tradire la moglie durante un concerto dei Coldplay? Questa storia la sapete sicuramente, dai, perché siamo ormai programmati per questo tipo di schizofrenia social(e). La Bigelow ha semplicemente tolto lo scroll e lasciato il panico: bombe in Iran, pubblicità di divani, missili su Israele, una foto su una spiaggia con un aforisma di Paulo Coelho, un post che spiega perché Superman fa schifo, guerra, meme, guerra, altra pubblicità. È il flusso di coscienza del mondo che crolla in diretta, e noi continuiamo a guardarlo come se fosse un reel di gattini. A House of Dynamite ci mette davanti all’assurdo di questa normalità: viviamo davvero in una casa piena di esplosivi e la cosa più spaventosa è che, quando esploderà, nessuno saprà davvero che cazzo fare e qualcuno continuerà a scrollare come niente. Ora scusate, ora vado a nascondermi di nuovo sotto al letto. Grazie, Kathryn, grazie davvero.
Poster Quote:
“Due cose sono infinite: l’universo e l’ansia che mette addosso questo film, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi”
Lou Ferragni, i400calci.com