Per Claudia la corsia di emergenza è quella dei biscotti, Eugenia ne ha una di sorpasso accanto ai carboidrati. Siamo in un supermercato. Chi soffre di disturbi del comportamento alimentare (dca) non ha un rapporto regolare con la spesa, le ragazze hanno più di 30 anni e ancora oggi è complicato. Gli occhi di Claudia sono di un azzurro più nutrito, in Eugenia più leggero: è così che vedono il cibo sano sugli scaffali. Nel carrello della prima c’è il salmone, troppo grasso per l’altra che punta dritta al pesce spada. Nessuna delle due compra i biscotti, «anche se a me piace guardarli»: Eugenia soffre di anoressia nervosa. Per Claudia esistono solo biscotti da abbuffata, se li compra deve liberarsene. È la prima volta che vanno al supermercato con il loro nutrizionista: la Fondazione Ananke di Villa Miralago ha condotto a Milano la prima esperienza di spesa assistita, “che non significa dire ai pazienti cosa devono o non devono comprare, ma ragionare su scelte consapevoli e meno guidate dalla paura, per lasciarsi andare in maniera funzionale e controllata”. Mattia Resteghini spinge il carrello apposta per restare un passo indietro: sa che il suo ruolo è delicato. «Quando si parla di cibo ci si focalizza solo sul momento in cui si deve o non si deve mangiare, tralasciando tutti i passaggi precedenti che portano a tavola. Gli aspetti alimentari sono quelli di massima fragilità e noi nutrizionisti li trattiamo più degli altri professionisti. Per i pazienti con dca siamo spesso dei nemici, ma siamo anche le figure che possono legittimarli a mangiare. Possiamo essere alleati». L’équipe multidisciplinare che si occupa del trattamento dei dca (psicologi, psichiatri, dietisti, educatori, ndr) è una cassetta degli attrezzi: ognuno interviene su punti diversi, ma ci si sposta sempre insieme. Il percorso di cura di un paziente con dca si divide in due parti: la prima schematica e metodica, necessaria per creare continuità e migliorare il rapporto con il cibo. La seconda imperfetta, perché lo schema si allarga e il paziente inizia a sentire molto di più la responsabilità delle sue scelte: questa fase è difficile ma costruttiva, ed è qui che va a collocarsi l’esperienza di spesa. Il supermercato può rappresentare il climax del sintomo, scatenare intensi trigger emotivi esasperando ansia, stress, la paura degli zuccheri, la fuga dai carboidrati. In Italia si parla poco del rapporto tra chi soffre di disturbi del comportamento alimentare e il supermercato: già nel 2018 il Washington Post aveva dedicato un articolo alla terapia dell’espozione tra gli scaffali con il supporto virtuale di un dietista, permettendo ai pazienti di affrontare le proprie fobie in maniera graduale, alla vista del cibo nei supermercati. Dopo diverse sedute, erano in grado di fare la spesa da soli. Mentre in pandemia andare al supermercato diventava una boccata d’aria e riempire il carrello un simulacro di normalità, c’è chi sentiva il suo disturbo alimentare ricadere sugli altri. Una vera pugnalata alle spalle. BBC aveva documentato la difficoltà di una paziente anoressica nel procurarsi cibi sicuri, l’urgenza di una donna bulimica nel dover fare scorte di cibo, il senso di colpa comune a entrambe al pensiero che altra gente, forse, avrebbe avuto bisogno di quel cibo più di loro; scaffali vuoti che hanno minacciato ricadute o percorsi di guarigione diventati all’improvviso ingiusti, se basati sull’acquisto di molti alimenti per assumere più calorie, come se li si stesse togliendo agli altri. Uno studio attuale pubblicato sul Journal of eating disorders ha testato le potenzialità di Maze Out, un videogioco sviluppato in Danimarca insieme a pazienti, game designer e dottori, utilizzato come plus terapeutico nel trattamento dei dca. Il gioco simula esperienze quotidiane per esplorare nuove strategie di comportamento in modo safe, ossia senza che accadano davvero nella realtà. Il supermercato rientra tra le esperienze simulate, cosa che ha permesso ai ragazzi coinvolti nello studio di capire che l’ansia tra gli scaffali non è un problema personale, ma è piuttosto diffusa tra chi soffre di disturbi del comportamento alimentare. Riconoscerlo ha alleviato il senso di vergogna e aiutato a normalizzare la difficoltà, permettendo di mentalizzarla e affrontarla. In che modo? «Scrivere il nome esatto dei biscotti, per esempio, aiuta a non perdersi tra la miriade di quelli esposti che provocano ansia e indecisione», continua Resteghini. Scegliere in base al gusto e non alle etichette, dosare anziché rinunciare, fare una lista specifica della spesa. Al supermercato un disturbo alimentare diventa un prodotto battuto due volte: il momento della spesa rimarca comportamenti restrittivi che nel caso della bulimia nervosa, se reiterati, fanno perdere il controllo. Il nutrizionista ha guidato Claudia a una via di mezzo, la sua spesa si è rimpicciolita: nessuna confezione formato famiglia. C’è però la frutta secca che di solito non compra perché ha paura di finirla. «Ho capito che posso optare per un pacco più piccolo anziché rinunciarci». Quando mette nel carrello pancetta e mozzarella ci ripensa: «Non fanno parte della mia spesa normale». Per oltre 3 milioni di italiani con un disturbo del comportamento alimentare, un momento ordinario come quello della spesa è un compromesso tra normalità e fatica. Per Eugenia significa comprare il petto di pollo e non la coscia con la pelle, il nutrizionista gliela mostra: è sempre pollo. Anche con un contorno: «Capire gli abbinamenti è stato uno dei momenti in cui Mattia mi ha aiutata di più», mentre superano il tofu che non sa di niente: «Ammetto che il sapore voglio trovarcelo io». Eugenia sceglie sempre le stesse cose, poche, perché quelle che le piacciono di più, tante, fanno ingrassare. Se l’anoressia limita la varietà degli alimenti, la bulimia affretta i tempi: lo schema dell’abbuffata impone a Claudia una spesa veloce e mirata per placare l’ansia. Nessuna delle due fa scorte di cibo: una non si fida di come gestirle a casa, l’altra deve controllare le calorie che assume. Per questo chi soffre di un disturbo alimentare tende ad andare al supermercato tutti i giorni. «Comprare il necessario è diverso. È un modo per assumersi la responsabilità del cibo acquistato, che dovrà durare fino alla prossima spesa», spiega Resteghini. Quella assistita potrebbe fare la differenza: «Integrare questo supporto nel nostro approccio terapeutico è una prova che deriva dall’ascolto di chi assistiamo ogni giorno. Abbiamo valutato con attenzione come l’hanno vissuta le pazienti, per capire come e se renderla una parte più stabile delle possibilità di cura. Che restano da valutare sempre individualmente» dice Alessandro Raggi, psicoterapeuta e vice presidente della Fondazione. «Siamo disponibili a condividere i risultati con altri enti associativi pubblici e privati, perché tutti i pazienti possano ricevere un supporto ancora più calato nella loro quotidianità, trovando gli strumenti e il sostegno necessari per affrontare le sfide o i luoghi quotidiani, come il supermercato». Eugenia supera le porte scorrevoli con una shopper piena di cibo. Di scelte non guidate dal sintomo, ma dalla sua identità.

Anche la famiglia incide sulla spesa di una persona con dca

Lo yogurt greco che entra nel carrello è un autogol. «Se vivessi da sola non lo comprerei». Francesca è cresciuta con un disturbo alimentare: mangiare sano, nella sua famiglia è un’ossessione. «A casa bocciamo i sughi pronti e prepariamo gli hamburger solo con il macinato magro». Il succo di frutta al mirtillo puro. Cioè senza zucchero. «Lo bevo per coprire il sapore delle medicine», gli psicofarmaci che con straordinaria lucidità assume a 20 anni. Vuole guarire. È stata la nutrizionista Claudia Gucciardi a proporle la spesa assistita, dopo l’esperienza del collega Resteghini a Milano. A Napoli il cibo abita tra le persone, governa i rapporti familiari ed è in grado di rifletterli oltre il contesto domestico. Per Francesca non è solo la bresaola tra tutti gli affettati o i biscotti al grano saraceno tra tutti i frollini: è anche vivere con i genitori. La famiglia ha un ruolo ambivalente nel supportare o complicare un comportamento disfunzionale: il regime alimentare della sua ha aumentato la tensione e troppa tensione è diventata binge eating disorder. «La famiglia può essere un sostegno ma anche, spesso involontariamente, una fonte di stress e di mantenimento del sintomo. Accompagnare o no i figli a fare la spesa non è determinante quanto l’atteggiamento e il comportamento che i familiari hanno nei loro confronti», chiarisce Raggi. Francesca al supermercato compra sempre il cibo che vorrebbero loro. «Andare con lei significa aiutarla a scegliere senza paura. E, soprattutto, in base ai suoi gusti», spiega la sua nutrizionista. Tra le corsie la ragazza indica i soliti prodotti a cui non si è mai affezionata: riso Basmati, barrette proteiche. «La maggior parte dei miei problemi con il cibo dipende dai limiti che mi sono stati imposti. Devo giustificarmi se torno a casa con qualcosa che mia madre di solito non compra». Con Claudia Gucciardi ha già decostruito molte credenze, prima fra tutte l’idea che il cibo che le piace sia sbagliato rispetto a quello che la sua famiglia mangia abitualmente. Ma quando prende i cereali al cioccolato anziché ignorarli, Francesca capisce che finalmente questa è la sua spesa. Ripensare il suo rapporto con il supermercato è il primo passo per trovare una via di mezzo nella vita di tutti i giorni con il cibo: meno anziché niente, formati monoporzione, più piccoli e forti di un’abbuffata. La spesa assistita è un’esperienza utile anche per la nutrizionista che, seguendo la ragazza tra gli scaffali, misura l’efficacia del lavoro già svolto in studio e individua nuovi spunti su cui lavorare: «È un modo per dirsi delle cose in più sul rapporto con il cibo. Cose che in fase di visita non emergono», concorda Francesca. Il confronto con le famiglie è un punto cruciale nel trattamento dei dca: è così che il team multidisciplinare può aiutare a comprendere meglio ciò che accade ai loro figli, sapendo che ogni dca ha bisogni, paure e trigger differenti. «Occorre capire molto bene le dinamiche di comunicazione che ci sono in ogni famiglia, quali sono le risorse dei figli, dei genitori, e aiutarli a strutturare delle modalità di relazione meno problematiche», conclude Raggi. Francesca vive ogni giorno una doppia fatica: gestire il rapporto con il cibo e quello con i genitori. «Spero che la mia esperienza possa aiutare gli altri come mio fratello ha aiutato me. Lui sa cosa significa». È guarito da diversi anni.

Il neuromarketing (non abbastanza) applicato alla sfera dei disturbi alimentari

Uno studio pubblicato sull’International journal of behavioral nutrition and physical activity fa notare che i supermercati siano ancora sottoutilizzati come luoghi d’intervento: eppure si tratta di contesti ideali in cui testare e ottenere risultati concreti. Gli autori forniscono un elenco di raccomandazioni per permettere anche ai supermercati di essere presi in considerazione negli studi scientifici che riguardano la sfera della salute pubblica. Ai supermercati va riconosciuta la capacità di esercitare una forte influenza sulla routine alimentare delle persone, oltre a essere miniere di dati sulle abitudini di acquisto e di consumo. La collocazione di frutta e verdura sempre all’ingresso, gli snack in prossimità delle casse per agevolare gli acquisti d’impulso: la maggior parte delle persone va al supermercato e anche quando ha fretta, semplicemente, si lascia guidare. Al contrario, chi soffre di un disturbo del comportamento alimentare si ritrova in un perenne stato di allerta, leggendo le etichette con ossessione o scegliendo cibo grasso alla rinfusa quando tra un martedì o una domenica non c’è differenza, in caso di abbuffata. Il neuromarketing, che unisce psicologia, marketing e neuroscienze, è stato in parte applicato alla sfera dei dca per comprendere i meccanismi neurobiologici che ci sono alla base. Quel che manca è un’applicazione più specifica, che possa indagare il binomio dca e supermercati e giungere a un’analisi più mirata delle reazioni emotive che si scatenano alla vista dei prodotti esposti sugli scaffali. Oltre al punto focale delle etichette, sarebbe utile capire cos’altro cattura l’attenzione e stimola le reazioni di chi ne soffre. Ciò permetterebbe ai professionisti di ampliare le loro possibilità di assistenza, offrendo supporto aggiuntivo ai pazienti che riescono a parlare senza vergogna della loro ansia al supermercato. Il neuromarketing è saldamente connesso alle scelte alimentari, come evidenzia uno studio pubblicato su Elsevier che analizza ulteriori ricerche sui processi decisionali attraverso alcune tecniche di misurazione usate in questa disciplina, dall’elettroencefalografia all’eye-tracking. La risonanza magnetica funzionale (fMRI), tecnica non invasiva di imaging biomedico che indaga il funzionamento di specifiche aree del cervello, è stata applicata al campo degli studi sui dca dimostrando che esistono delle alterazioni nelle aree del cervello coinvolte nella regolazione emotiva, nel controllo cognitivo, nella ricompensa, nei comportamenti motivazionali e nella percezione corporea. Ogni dca presenta pattern differenti: l’anoressia nervosa è associata a ipercontrollo ed evitamento della ricompensa; la bulimia, al contrario, all’impulsività e a una più debole regolazione emotiva; il binge eating disorder alla disregolazione degli impulsi e a un’ipersensibilità alla ricompensa. Ci sono però anche delle sovrapposizioni funzionali, comuni ai tre dca, in particolare nelle regioni limbiche, prefrontali e somatosensoriali del cervello. Lo studio pubblicato su BMC ha evidenziato che i comportamenti disfunzionali derivano dalle alterazioni della connettività funzionale: dall’abbuffata alla restrizione, fino all’ossessione per il proprio corpo e per il peso.

Le persone con dca non vivono i luoghi comuni come gli altri. Ristoranti, supermercati, ambienti di lavoro: i posti più ordinari sono quelli che condizionano di più la loro vita. Il loro approccio è rovesciato rispetto a quello di chi non immagina la sofferenza e i limiti causati da questi disturbi mentali. L’esperienza della spesa assistita ha fatto emergere i non detti e i radicalismi mentali davanti al cibo: petto o coscia, tutto o niente. E strategie gratificanti che suonano però consolatorie (non compro i biscotti, ma mi piace guardarli). La presenza fisica o virtuale del nutrizionista al supermercato potrebbe aiutare a ricostruire il loro rapporto con i luoghi, oltre che con il cibo. Dove il cibo è la barriera.