Chiusa, per adesso, in un mare di recriminazioni la trattativa Usa-UE sul commercio, torna in primo piano quella fra l’Amministrazione Trump e il governo cinese

Dopo gli incontri di Ginevra le due delegazioni si sono spostate a Stoccolma. Si sforzano di inviare segnali positivi, l’ottimismo ufficiale regna. Per adesso siamo in regime di prolungamento della tregua, sono sospesi sia i superdazi annunciati da Trump sia le rappresaglie cinesi



















































A differenza di quanto accaduto con la Commissione UE, tra Washington e Pechino si è capito che nessuno dei due è in grado di piegare l’altro con un colpo fatale. O forse sarebbe più esatto dire: ciascuno dei due ha dimostrato di poter assestare un colpo che l’altro non vuole subire, sicché siamo al pareggio. 

La Cina ha fatto assaggiare agli americani il danno tremendo che sarebbe un embargo sulle forniture di terre rare. L’Amministrazione Trump ha dimostrato di poter infliggere danni altrettanto gravi con l’embargo su certe categorie di microchip (i più avanzati che servono all’intelligenza artificiale), le parti di ricambio dei jet passeggeri, e altre tecnologie. Ciascuno ha quindi ritirato o disarmato il proprio “bazooka” a condizione che l’altro faccia altrettanto. 

È abbastanza chiaro a mio avviso che si tratta di una tregua, non di una pace duratura. Ciascuno dei due contendenti si riserva di riaprire le ostilità quando avrà conquistato una sufficiente autonomia e si sarà quindi affrancato dal ricatto altrui: i cinesi stanno lavorando alacremente per costruirsi un ecosistema autarchico nei semiconduttori; gli americani stanno investendo nella costruzione di filiere mondiali alternative nell’approvvigionamento di terre rare e minerali strategici in modo da bypassare la Cina in futuro. Ma questo è il futuro. Per adesso le ragioni della tregua sembrano solide.

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Quello che si potrebbe definire un pareggio, viene però presentato dai vertici cinesi come una loro vittoria. Il perché lo spiega in modo autorevole Zongyuan Zoe Liu, una esperta cinese che lavora negli Stati Uniti presso il think tank Council on Foreign Relations.

Ecco la sua analisi dettagliata, e datata dalla città di Shenzhen:
«I più recenti colloqui commerciali tra Stati Uniti e Cina hanno offerto poco più di un sollievo temporaneo nel conflitto tra le due maggiori economie mondiali. Nonostante gli sforzi del presidente Trump di presentare le misure provvisorie come un “accordo” vantaggioso per l’America, la Cina legge il bilancio in modo diverso — e ritiene di essere in vantaggio. Dal suo punto di vista, ha resistito alla tempesta ed è emersa più sicura di sé, più autosufficiente e sempre più convinta che la sua strategia di lungo periodo stia dando i suoi frutti. Da quando è iniziata la logorante guerra commerciale sino-americana nel 2018, la Cina ha elaborato un piano d’azione che mescola strategie difensive e offensive per ridurre la propria vulnerabilità ai dazi e alle sanzioni. Sul fronte difensivo, ha deviato i flussi commerciali, costruito strumenti di protezione contro il sistema finanziario globale dominato dal dollaro e accelerato gli investimenti in tecnologie nazionali. Ha inoltre lanciato un forte impulso ai consumi interni, non come fine in sé, ma per rafforzare settori strategici come le applicazioni dell’intelligenza artificiale e la tecnologia verde. Sul fronte offensivo, la Cina ha inasprito i controlli sulle esportazioni e dimostrato una prontezza a reagire in modo rapido e mirato. La risposta delle autorità cinesi alle minacce tariffarie e alle escalation del secondo mandato di Trump riflette questa flessibilità tattica e una risolutezza incrollabile. Negli ultimi mesi, la Cina ha reagito quasi immediatamente, mantenuto una linea dura nei negoziati e, in generale, ha rifiutato di lasciarsi intimidire. Non sta semplicemente reagendo alla pressione: sta ridefinendo il conflitto commerciale con gli Stati Uniti secondo i propri termini.

Nel frattempo, l’amministrazione Trump ha — forse inconsapevolmente — messo in luce la dipendenza delle industrie statunitensi dalla Cina per quanto riguarda terre rare e altre materie prime. Le interruzioni al commercio bilaterale provocate dai dazi di Trump hanno lasciato i produttori americani in difficoltà e costretti a pagare di più per i materiali. Con l’introduzione dei controlli sulle esportazioni di terre rare all’inizio di aprile, il governo cinese ha scoperto un potente strumento per infliggere danni alle imprese americane. 

Le sceneggiate caotiche di Trump hanno offerto al Partito Comunista Cinese (PCC) una vittoria propagandistica (sebbene resistere a Trump non sia così popolare in Cina come molti osservatori esterni credono) e, soprattutto, un vantaggio strategico. Per molti governi del Sud globale, scettici nei confronti del modello di sviluppo occidentale, la resilienza della Cina di fronte alla pressione statunitense dà credito all’affermazione del presidente Xi Jinping secondo cui il mondo starebbe attraversando “grandi cambiamenti mai visti in un secolo”. 

Dal punto di vista del governo cinese, la determinazione dell’amministrazione Trump a disaccoppiare le due economie a qualunque costo rappresenta il culmine degli sforzi americani per soffocare l’ascesa della Cina. Sebbene la Cina non desideri né una guerra commerciale né un disaccoppiamento, è disposta a rischiare una guerra commerciale che gli Stati Uniti potrebbero perdere, e preferirebbe disaccoppiarsi piuttosto che piegarsi a Trump. È per questo che i leader, gli imprenditori e gli industriali cinesi si sono concentrati sulla costruzione di resilienza e autosufficienza, il che significa, prima di tutto, ridurre la dipendenza dai mercati e dalle tecnologie statunitensi. Pur riconoscendo che nulla può eguagliare la domanda dei consumatori americani e la capacità innovativa degli Stati Uniti, oggi molte imprese cinesi considerano le proprie possibilità di competere nel mercato statunitense e di accedere ai suoi prodotti ad alta tecnologia prossime allo zero, e si comportano di conseguenza.

La rinascita spettacolare di Huawei nonostante le sanzioni e restrizioni americane ne è un esempio. Ora anche ByteDance è sotto pressione, con Trump che cerca di costringerla a vendere TikTok, la sua app di condivisione video, ad acquirenti americani. Naturalmente, i dazi di Trump fanno male, e i leader cinesi lo sanno bene. Potrebbero colpire duramente la manifattura leggera a basso valore aggiunto della Cina – come abbigliamento e calzature. 

Tuttavia, una contrazione delle esportazioni potrebbe finire per favorire la Cina, accelerando la concentrazione industriale, costringendo le imprese più arretrate a uscire dal mercato e migliorando l’efficienza. È vero, la disoccupazione potrebbe aumentare. Ma in un Paese dove le fabbriche sono già altamente automatizzate, le ricadute politiche probabilmente sarebbero limitate. E, forse ancor più importante, la Cina ha già superato momenti peggiori. Ad esempio, le riforme orientate al mercato e le ristrutturazioni portarono al licenziamento di oltre 76 milioni di lavoratori tra il 1992 e il 2002. Una nuova ondata di licenziamenti difficilmente scuoterà il controllo del potere da parte del PCC. L’impatto a lungo termine delle politiche tariffarie di Trump è ancora più profondo. 

Così come la stretta su Huawei e ZTE ha dato impulso alle ambizioni tecnologiche cinesi, le nuove restrizioni geoeconomiche non hanno fatto che facilitare il compito dei leader del PCC nel mobilitare l’opinione pubblica contro le umiliazioni percepite come inflitte dall’esterno. La breve sospensione dei dazi, che offre agli esportatori solo una finestra per accelerare le spedizioni senza gettare le basi per una distensione, non ha modificato questo sentimento. Poiché lo choc tariffario imposto da Trump coincide con l’ultimo anno del 14° Piano Quinquennale della Cina, i responsabili politici hanno cercato di sostenere i consumi interni e le piccole imprese attraverso stimoli fiscali e monetari. Ma queste misure non risolveranno i problemi strutturali dell’economia – in particolare il basso tasso di consumo delle famiglie. 

Un riequilibrio di questo tipo richiederà probabilmente anni. Nel frattempo, con un contesto esterno sempre più ostile, la leadership del PCC – dominata da figure con formazione ingegneristica – e gli industriali del Paese continueranno a investire risorse in tecnologie avanzate, in particolare nei sistemi manifatturieri d’avanguardia basati sull’intelligenza artificiale, nel tentativo di evitare un calo della produttività. La scommessa ad alto rischio della Cina sullo sviluppo della tecnologia domestica, avviata quando Trump diede inizio alla guerra commerciale nel 2018, non garantisce il successo. Ma mentre gli Stati Uniti cercano di spingere la Cina in un angolo, pochi vedono una via d’uscita alternativa».

Zongyuan Zoe Liu, l’autrice di questa analisi, è Senior Fellow per gli studi sulla Cina presso il Council on Foreign Relations, docente associata aggiunta presso la School of International and Public Affairs della Columbia University, autrice dei saggi “Can BRICS De-dollarize the Global Financial System?” (Cambridge University Press, 2022) e “Sovereign Funds: How the Communist Party of China Finances Its Global Ambitions” (Harvard University Press, 2023).

30 luglio 2025, 14:59 – modifica il 30 luglio 2025 | 15:20