Foto: Ansa

Edoardo Sirignano

27 ottobre 2025

«Ho visto che il Garante si è presentato in quel palazzo. Non so, poi, dove è andato. Mettiamo pure che sia andato da qualcuno del partito della Meloni. Non ci vedo nulla di eccezionale. Funziona da sempre così. Sono tutte polemiche sterili e, a mio modesto parere, inutili». Giovanni Minoli, pezzo di storia della televisione italiana, interviene rispetto al servizio che mostra un componente dell’organo di controllo della tv di Stato, a poche ore dalla sanzione a Report, entrare nella sede di Fratelli d’Italia.

Ritiene giusto alzare tutto questo polverone su una vicenda che, probabilmente, interessa poco agli italiani?

«Ritengo che ci siano cose più importanti a cui pensare. L’attenzione della politica doveva concentrarsi su altro. Mi soffermerei su aspetti che ritengo più inquietanti».

A cosa si riferisce?

«Dopo aver partecipato, con grande intensità, alla solidarietà nei confronti di Ranucci per l’attentato subito, ho trovato agghiacciante il modo in cui è stato accolto dall’Associazione Nazionale Magistrati, come un eroe. Applaudivano, gridavano. E ciò, non le nascondo, mi ha fatto molto più impressione rispetto al Garante andato in via della Scrofa».

Questa, dunque, potrebbe essere la dimostrazione plastica di quei rapporti infiniti tra una certa magistratura e alcuni organi di informazione?

«Questo rapporto, a cui si riferisce, esiste da sempre o meglio è continuativo da quando i comunisti hanno deciso che la rivoluzione non si poteva fare nel modo tradizionale, ma attraverso l’arruolamento di magistrati e giornalisti. Anche se, devo essere sincero, non lo si era mai fatto in maniera così esplicita».

In Italia, intanto, si parla soltanto di TeleMeloni. La “mamma degli italiani” è diventata davvero l’organo di informazione della maggioranza?

«Ma quale TeleMeloni?

Dovremmo, allora, dire TeleBerlinguer, TeleFanfani, TeleMoro o meglio Teletutti.

«La gestione della Rai, non dimentichiamolo, è determinata da una legge che affida il potere di nomina ai partiti. Questi, a secondo della loro quota di potere, hanno il diritto-dovere di nominare e farsi rappresentare. I “nominati”, a seconda delle varie sensibilità, fanno delle scelte che possono essere meno o più professionali».

Quale è, dunque, il vero problema di viale Mazzini?

«Si applica un modello organizzativo che non sta in piedi. Ma ciò, ripeto, succede da un po’ di tempo a questa parte, da prima che Giorgia Meloni arrivasse a Palazzo Chigi. La verità è che prima si sceglievano a prescindere i migliori. Oggi non sempre accade».

La sinistra, però, cerca di mettere il cappello, a tutti i costi, a un giornalista al di sopra delle parti come Ranucci. Non le sembra un errore?

«Ranucci è un giornalista libero della scuola di Milena Gabanelli. Non ci sono dubbi. Allo stesso modo le inchieste, a volte, possono venir fuori nella maniera ottimale e in altre in modo più frettoloso, seppure con grande qualità. Il problema, piuttosto, è un altro, ovvero che Report è l’unico programma di inchiesta del sistema Rai. Una volta c’erano i contenitori di Zavoli, Lerner, Santoro, Biagi, Minoli, solo per citarne qualcuno. C’era davvero il pluralismo. Oggi non possiamo dire altrettanto. È normale, dunque, che ogni parola pronunciata a Report o su di esso diventi un caso».

Occorre, quindi, allargare l’offerta?

«La priorità è solo cambiare modello organizzativo, con appunto un’offerta informativa diversa. Per farla breve, credo che la prima rete dovrebbe essere nazionale, mentre la seconda potrebbe tranquillamente essere un all news, fatta di quaranta minuti di notizie e venti di rubriche. Questa è una strada per essere competitivi. Se, invece, per arrivare a Rai News devi scorrere parecchi canali è normale che, poi, ci sia una conseguenziale difficoltà nel progettare palinsesti e accontentare tutte le sensibilità. Serve una riforma del modello organizzativo della Rai, altrimenti sono tutte chiacchiere inutili».