di
Mirella Armiero

Scomparso a 91 anni l’artista che non volle mai lasciare al sua città, resta un immenso archivio che dovrebbe trovare posto a Capodimonte

Non se n’è mai andato da Napoli di cui era l’immagine più nobile e più alta. È davvero difficile dire addio a Mimmo Jodice, 91 anni portati con fiera bellezza, proprio perché la città lo amava e gli era riconoscente per questa sua costante, discreta presenza.

Negli ultimi tempi di meno per le sue conduzioni di salute, ma fino a poco tempo fa Mimmo con l’amatissima moglie Angela partecipava attivamente alla vita culturale, alle mostre, alle presentazioni, appoggiando con generosità i nuovi talenti. Del resto era stato a lungo un docente in Accademia e gli piaceva aprire la strada ai giovani. E lui stesso si sentiva giovane. In un’intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno per i suoi 90 anni, nel marzo 2024, dichiarava con quella sua indimenticabile, allegra dolcezza: «Non parliamo del passato, meglio parlare del futuro». E nel futuro prossimo ci sarebbe dovuto essere (e speriamo più che mai che ci sarà) la collocazione dei suoi lavori e della sua camera oscura al Museo di Capodimonte, in uno spazio a lui dedicato.



















































Mimmo Jodice veniva dal quartiere Sanità, da una famiglia che aveva attraversato anche momenti difficili. Raccontava spesso di essersi accostato alla fotografia dopo aver ricevuto in dono una macchina da un amico di famiglia. I suoi primi lavori risentono del clima della contestazione e vanno dal concettualismo all’indagine sociale. Nella terribile notte del 23 novembre 1980 fu tra i volenterosi che partirono per l’Irpinia distrutta dal terremoto, che raccontò nei suoi scatti. Poi il suo obiettivo si è rivolto dove c’era bisogno di portare la luce, dove c’era troppa ombra, per esempio nell’ospedale psichiatrico, che ha fotografato con pudore ma con assoluta sincerità.

«Negli anni settanta speravamo che le nostre azioni potessero cambiare la realtà di cui eravamo testimoni diretti e partecipi», spiegava. «Eravamo convinti che il nostro impegno avrebbe prodotto un cambiamento. Invece ci accorgemmo, giorno dopo giorno, che tutto questo non era possibile. E non successe. A quel punto arrivò per me una svolta, etica quanto estetica: capisco che il mondo non cambierà. Allora decido di mostrare la città di Napoli senza vita, senza persone. Il libro “Vedute di Napoli” del 1980, è la fine della vita. Ma anche l’inizio di un percorso di ricerca, di esplorazione di zone fantasmatiche della realtà. Zone di silenzio, di attesa, di riflessione, di resilienza, di incantamento e, forse, di redenzione».

Così via via la sua visione diventa rarefatta, si svuota di figure umane, il suo interesse si rivolge al paesaggio, al Mediterraneo, al mito, alla classicità. Fotografa le statue della Villa dei Papiri di Ercolano conservate al Museo Archeologico Nazionale e svela in quei volti interrogativi arcani. La sua poetica diventa metafisica. Lo sguardo precede la macchina fotografica. Un grande artista, che non è mai passato al digitale. L’analogico è rimasto il suo strumento e la camera oscura era il regno della creazione, quasi quanto lo scatto.

Jodice era amato dal mondo dell’arte contemporanea, che oggi lo piange. E a testimoniarlo, nella sua bella casa studio di Posillipo, sono i lavori di tanti amici che glieli hanno donati negli anni, in segno di stima: opere di Warhol, Barisani, Spalletti, Paladino, Alfano, Rebecca Horn.

In un colloquio di qualche tempo fa, gli chiesi quale fosse la sua opera preferita tra le centinaia che ha realizzato. «La mano con il taglierino. O le impronte digitali», mi rispose. Erano lavori degli esordi, quando Jodice stava passando dalla pittura alla camera oscura, esplorando le mille possibilità del mezzo. Da allora in poi il suo sguardo si è sempre più affinato, è diventato più intenso.

«La fotografia è luce», diceva. E lui ha saputo catturarla, farla vincere, per sempre, sull’ombra. E poi aggiungeva, da perfezionista qual era: «Quando guardo il mio lavoro mi chiedo se non avrei potuto fare tutto meglio». Eppure i suoi cicli sono opere d’arte riconosciute in tutto il mondo, ha esposto nei musei più importanti, da Filadelfia a Düsseldorf, dalla grande mostra di Parigi a Cleveland, da New York al Castello di Rivoli di Torino, portando la sua Napoli ovunque.

Del resto, dopo aver guardato le fotografie di Mimmo Jodice non è più possibile vedere Napoli allo stesso modo di prima: la città diventa l’emblema di una generale condizione umana, tra attesa, desiderio di conoscenza e interrogazione sempre aperta sul senso ultimo delle cose.


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28 ottobre 2025 ( modifica il 28 ottobre 2025 | 21:11)