Un giorno, un fotografo militante diventò un viaggiatore incantato. Riassunta in una favola, o una parabola, questa è stata la vita di Mimmo Jodice fino a ieri, quando, a 91 anni, ha lasciato la sua Napoli, per la prima volta nella sua vita senza tornarci. A quella città doveva molto: ma vale anche il reciproco. Ne raccontò le passioni politiche e i dolori sociali, le pieghe e le piaghe, la povertà e il colera, ma anche l’enorme bellezza, il mistero, la volontà di riscatto.
E poi, quando quella volontà di riscatto si arrese, non fuggì lontano, ma scese letteralmente sotto la pelle della sua città, a cercarne la storia più lontana, per farla balzare fuori come fosse viva, per ricordarci che la storia non è un museo, ma è vita nel tempo.
    
Ci lascia un’opera universale. Eppure, Jodice senza Napoli non è pensabile. “Se fossi nato a Milano o a Zurigo non avrei fatto il fotografo. Non sarei sopravvissuto alla mancanza del mare”. Ma appunto, è vero anche il viceversa. Napoli deve qualcosa, molto, all’uomo che l’ha raccontata al di fuori di ogni stupido cliché, al libraio appassionato ma pentito, al fotografo per vocazione che per molti anni ha insegnato a vedere, dalla cattedra dell’Accademia, ai suoi giovani innamorati dell’arte.
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Qui, negli anni Settanta, quand’era lui stesso un ragazzo appassionato d’arte, divenne un fotografo amico di grandi artisti. Negli anni in cui Napoli visse una stagione strepitosa di scambi culturali, passavano sotto il Vesuvio Warhol, LeWitt, Beuys, Acconci, Rauschenberg, Nitsch, Jodice li incontrava tutti alla galleria Amelio di piazza Martiri, li avvicinava, li fotografava, e loro interagivano con le sue fotografie, ne nasceva un cortocircuito formidabile.
    
Napoli 1981, Fontana del Gigante
La battaglia del giovane ribelle Mimmo fu, all’inizio, proprio contro il suo stesso medium: la fotografia. Arrabbiato con i suoi stereotipi, con la sua finta trasparenza, fotografava e strappava, incollava, sovrascriveva. Poi però arrivarono gli anni in cui quelle battaglie di rottura si facevano nelle strade, e lui allora andò in strada, a fotografare per la lotta, portando le fotografie di denuncia sociale ai giornali di sinistra e anche, di notte, con la moglie Angela, compagna e collaboratrice di una vita intera, lasciandole sui muretti e i marciapiedi dei quartieri borghesi, perché quei privilegiati vedessero quel che non volevano vedere. Ma quella battaglia fu persa. Il colera, il terremoto: nei primi anni Ottanta Jodice si arrese alla sconfitta degli anni di desiderio, al disimpegno, alla fine delle speranze civili e politiche. “Da un anno all’altro, quasi da un giorno all’altro, a nessuno interessò più vedere quel che io vedevo”, spiegava così quel terremoto delle coscienze, “agli uomini non interessavano più gli uomini. Allora io li feci uscire dal quadro”.
Decise che, se l’umanità aveva scelto di disertare, le sue fotografie avrebbero fatto a meno della figura umana. Svuotò Napoli. Il fotografo che fino a quel momento aveva raccontato la vita caotica e sanguigna dei bambini di strada, dei contrabbandieri, dei bassi e dei rioni minacciati dal colera, rese metafisica la sua città in un libro che sorprese molti, dal titolo falsamente cartolinesco: Vedute di Napoli.
Fu la sua “protesta muta”, intravvide già allora un critico acuto, Arturo Carlo Quintavalle. Però non è andata precisamente così, non è stata davvero una dissipatio humani generis. Jodice rivolse l’obiettivo alle pietre antiche, è vero. Ma nei musei archeologici, negli scavi, nella Napoli sotterranea, non trovò freddi marmi, bensì nervi e volti e corpi. Chiamò, risvegliò l’umanità dormiente della storia.
Quei volti, che con un giro esperto delle manopole dell’ingranditore faceva vibrare, non erano di statue, ma di esseri umani come noi, erano il nostro passato, che lui incontrava, interrogava con ansia, con sconcerto, come se si sentisse delegato da noi contemporanei, che in fondo siamo il loro destino. E loro ci guardavano, sbalorditi, chiedendosi: siete dunque voi i posteri? E quella divenne così un’archeologia primaria delle emozioni, uno scavo tra i reperti dell’anima umana che giacevano nascosti sotto un sottile velo di materia dura.
L’uomo che donò il risveglio a quel passato, interrompendo i sogni di pietra di quei volti, non è stato uno stregone, né sciamano. È stato uno di loro. Aveva un volto mediterraneo, inciso, patriarcale, incorniciato da una criniera di capelli e barba che erano neri e divennero bianchi, come accade ai volti degli eroi quando diventano marmo.
Jodice è stato un uomo mite, taciturno, gentile. Capace di conservare fino all’ultimo la sua pacata umanità pur avendo attraversato sofferenze e incertezze. Che evaporavano, almeno per qualche ora, quando si chiudeva nel suo regno di assoluta sovranità, ossia l’antro rossastro della camera oscura, che non ha mai voluto smantellare, nella sua casa di Posillipo piena di opere d’arte dei grandi con cui ha collaborato. Si considerava “un predestinato alla fotografia”, ma quell’incontro con l’arte dell’immagine meccanica gli regalò un mezzo, e non un fine.
Alla fotografia come sistema, come chiacchiera e carriera, dopo tutto, è rimasto spesso estraneo. La definizione standard di fotografia, “strumento per riprodurre il reale così come appare”, l’ha costantemente rinnegata. Per Jodice, al reale occorreva strappare quel velo di presunzione e ipocrisia, non rappresentarlo. La fotografia rappresenta e non documenta, diceva.
C’è, nel lavoro immenso che ci lascia, una strana alternanza tra la pacificazione della storia e il sentimento tragico del presente. Non lo ha mai negato. Diceva: “è un sentimento della finitezza e della incomprensione”. Come il vagabondo delle stelle, Darrell Standing, l’eroe di Jack London, Jodice ha lanciato la sfida più ardita alla linearità del tempo storico, alla sua apparente razionalità cartesiana. Lo ha fatto viaggiando come un Ulisse nel Mediterraneo (ma seppe portare quella visione anche in altri continenti), l’universo dove oltre venti secoli di segni dell’uomo si sovrappongono, si intrecciano. Lo ha fatto con la leggerezza del sovrappensiero, che è lo stato mentale più vicino al sogno.
Gli piaceva una frase di Pessoa: “Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare?”. Perché guardare è perdersi, ma, come accade alle sue statue, è anche risvegliarsi, per ritrovarsi umani.
