La vecchiaia non è una roba lontanissima che succede solo agli altri o nei film di Paolo Sorrentino. L’angoscia del corpo che inesorabilmente diventa una prigione, l’umiliazione della mente che perde padronanza sulla realtà – diventare anziani è la realtà più infernale che si possa immaginare.

James Ashcroft, tuttofare del cinema neozelandese, è passato alla regia con il tarlo di dare forma a questo terrore: al terzo lungometraggio dopo l’esordio Coming Home in the Dark, porta al cinema la sua primissima sceneggiatura The Rule of Jenny Pen, da un racconto di Owen Marshall incentrato su quanto male una bambolina possa fare in un centro anziani persino senza infestazioni demoniache o antiche maledizioni.

SIGLA!

Nuova Zelanda. Il giudice Stefan Mortensen (Geoffrey Rush), uno Scrooge in toga e citazioni colte, viene colpito da un ictus nel bel mezzo di una sentenza. Ristretto nei movimenti e senza famiglia su cui contare, è costretto all’umiliazione sociale e intellettiva di doversi ricoverare in una RSA. Ma nemmeno in una casa di riposo si può stare tranquill: Mortensen diventa subito il bersaglio, Dave Crealy (John Lithgow). Di giorno, è un mite omaccione inseparabile dalla sua “dementia doll” Jenny Pen. Di notte, si trasforma in un sadico torturatore che, nell’indifferenza dello staff, sottopone gli altri ospiti a un nonnismo impietoso, costringendoli a prostrarsi al dominio di Jenny Pen (leccandole le natiche, che in realtà poi sono il polso). Mortensen però è un bastardo inflessibile: si oppone alle angherie di Crealy, trovando un riluttante alleato nell’ex giocatore di rugby Tony Garfield (George Henare, Once Were Warriors – Una volta erano guerrieri), ma non prima di pagarla carissima.

La reunion di “Tu chiamami Peter”

Sulla carta, questo Cocoon in salsa The Shining + Qualcuno volò sul nido del cuculo non dovrebbe funzionare – e ci sono a malapena le condizioni tecniche. Ma sotto una scorza poco elegante, c’è un thriller solido, tanto convenzionale nella struttura quanto grottesco nel ritrarre la disforia del corpo senescente, il costante disorientamento della mente ingabbiata, la claustrofobica monotonia della casa di cura, o l’energia febbrile del sadismo di Crealy.
Stephen King ha celebrato questo piccolo thriller neozelandese etichettandolo “uno dei migliori film dell’anno”. Non è chiaro quanto abbiano influito i palesi ammiccamenti – torture agli arti degli infermi da Misery, tappezzerie e corpi in vasca da The Shining -, ma c’è una certa energia sovversiva che rende difficile ignorare questo Jenny Pen, nonostante le limitazioni.

Causa di riposo (forzato)

Al netto delle intenzioni, Jenny Pen raglia un po’ visivamente. La fotografia tradisce sia la nitidezza iperreale del digitale, sia la sua mancanza di profondità. Questa ricchezza di dettagli mette impietosamente in risalto i corpi in disarmo e la ruvidezza dei gloriosi visi di Rush e Lithgow – quest’ultimo ormai pare un’illustrazione di Andrea Pazienza inchiostrata da Frank Quitely. Ashcroft cattura sguardi vacui e istanti di stordita felicità con primi piani ad altissima esposizione e inquadrature fuori asse, lasciando vuoti incolmabili attorno ai degenti, schiacciati in pancia all’inquadratura. Il resto, però, persino le sequenze allucinatorie, restano appiattite sulle scelte-non-scelte di un chip di compressione,
Ashcroft recupera nel sound design e nel montaggio, rarefatti e minacciosi abbasta da prendere a braccetto una sceneggiatura che non si ricorda bene dove sia durante il terzo atto.

Haka di riposo

La vera forza di Jenny Pen è il cast, capace di abbracciare la tenera crudeltà di una scrittura che raggiunge il picco nel dark humour inconsolabile di tre vecchietti infermi che si prendono a manate.
John Lithgow, in modalità “spurgo tutto il male dal corpo” prima di incarnare Albus Silente in Harry Potter, è una gioia da guardare persino con quei suoi raccapriccianti modi di ingollare cibo. Geoffrey Rush sfoggia meno estro ma dà di più sulla distanza, raramente così inflessibile e vulnerabile, un derivato di Scrooge di rara ma condivisibile antipatia. Il suo ritratto ci accompagna gradualmente verso la rassegnazione al fatto che, no, dall’ospizio (metaforico o meno) non si fugge. Tanto vale concedersi l’alibi della dignità.

(Sgo)mento mori

Forte di Rush, Lithgow e sul rotto della cuffia anche Henare, l’intuizione di Ashcroft apre le porte alla frontiera definitiva del film horror: prima che il diavolo arrivi alla porta, o che il corpo soffra gli squartamenti più sanguinolenti, la vera paura è diventare insignificanti, inutili per sé e per gli altri, soli.
Nell’epoca dei legacy sequel e degli attori ottuagenari che non possono andare in pensione nemmeno da morti, benvenuti nell’era del coming of old age.

Nell’ospizio nessuno vuol sentirti gridare

DVD-Quote:

«Dalla Nuova Zelanda, l’alba di un nuovo genere – il coming of old age»
Dredd Astaire, i400calci.com

>> IMDb | Trailer

Dove guardare The Rule of Jenny Pen