di
Luca Angelini
Le fabbriche cinesi sfornano molti più prodotti di quelli che il mercato può assorbire. E le aziende sono costrette a farsi concorrenza con prezzi ribassati che invadono i mercati esteri (Europa compresa)
Nelle segrete stanze dell’Hotel Jinxi di Pechino si è conclusa qualche giorno fa, a porte sigillate (l’albergo è gestito dallo Stato maggiore dell’Esercito popolare di liberazione), l’annuale riunione del Comitato Centrale del Partito comunista cinese (Pcc). All’ordine del giorno, come raggiungere con successo il programma del piano quinquennale. Nessuno lo confermerà in via ufficiale (tanto più che, come ha scritto Federico Fubini, «non importano la disoccupazione giovanile della Cina o i ventenni che non vogliono più lavorare dodici ore al giorno, sei giorni su sette, come i loro padri. Non importano il crac immobiliare e la paralisi dei consumi. Non questa settimana. Xi Jinping deve avvicinarsi al vertice con Donald Trump in Malesia pieno di fiducia nei propri mezzi»), ma è probabile si sia parlato di quello che è forse il problema più spinoso dell’economia cinese: la sovrapproduzione. Da tempo, le fabbriche cinesi sfornano molte più merci di quelle che il mercato tende ad assorbire (qui un Dataroom di Milena Gabanelli e Danilo Taino). Risultato: aziende che, in vari settori, dall’automotive ai pannelli solari, sono costrette a farsi concorrenza abbassando i prezzi fino a produrre in perdita, aprendo voragini nei bilanci (e invadendo con sempre più aggressività i mercati esteri, a partire da quello europeo).
Il «socialismo cinese»
I piani quinquennali e, più in generale, l’intromissione del partito nel «socialismo con caratteristiche cinesi» (o «capitalismo politico», come lo chiama l’economista Branko Milanovic) hanno la loro bella fetta di responsabilità. Come ricorda, su Foreign Affairs, Lizzi C. Lee, che si occupa di economia cinese per il Policy Institute’s Center for China Analysis dell’Asia Society, «l’impianto interno dell’economia politica cinese incentiva le imprese a produrre troppo. Sebbene questo sia sempre stato l’esito prevedibile del sistema politico e finanziario cinese, la disfunzione è stata tenuta sotto controllo durante gran parte della spettacolare ascesa della Cina. Tuttavia, i cambiamenti nell’economia cinese dal 2020, tra cui il crollo del mercato immobiliare e la stretta sulle imprese e gli investimenti privati, hanno aggravato gli incentivi strutturali che portano alla sovraccapacità produttiva. Il risultato non è solo un danno alle relazioni commerciali della Cina, ma anche un crollo dei profitti aziendali, una significativa pressione deflazionistica e limitazioni all’innovazione. Nel tempo, le spietate guerre dei prezzi si riversano anche sul mercato del lavoro, con le aziende che congelano i salari o tagliano posti di lavoro, il che indebolisce la spesa delle famiglie, aggrava il rallentamento strutturale della Cina e rende la crescita ancora più difficile da sostenere».
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La spinta del Partito Comunista Cinese
La piaga in cui l’analisi di Lee mette il dito è questa: «La tendenza della Cina alla sovrapproduzione ha origine in un contesto improbabile: il sistema di performance e promozione del Partito Comunista Cinese. Nella burocrazia del Pcc, i funzionari locali vengono valutati principalmente in base alla loro capacità di generare crescita, occupazione e gettito fiscale. Ma la più grande imposta cinese, l’imposta sul valore aggiunto, è ripartita equamente tra il governo centrale e il governo locale del luogo in cui un bene o un servizio viene prodotto, non di quello in cui viene consumato. Poiché il sistema alloca il gettito fiscale alle regioni in base alla produzione, premia la decisione di costruire basi industriali più ampie (…). Anche le imprese non redditizie, dopotutto, contribuiscono alle casse locali attraverso l’Iva, le imposte sui salari e i contributi previdenziali obbligatori. Questo aiuta a spiegare perché le amministrazioni locali sostengano le imprese in perdita, almeno sulla carta: un’azienda in difficoltà impiega comunque lavoratori, pagando così tasse e contributi previdenziali; acquista comunque input, che generano Iva; e contribuisce comunque alle statistiche sulla produzione industriale che contano per la valutazione dei quadri. In altre parole, le imprese non redditizie mantengono un valore fiscale non perché generano profitti, ma perché generano tasse».
Più produzione, più tasse
Insomma, se allarghi le fabbriche, ne fai costruire di nuove o tieni comunque in vita quelle ormai diventate degli «zombie», raccoglierai più tasse e più benevolenza agli occhi del partito. Peccato che l’effetto collaterale sia di alimentare la spirale della sovrapproduzione.
Con un’aggravante: un sistema bancario e finanziario anch’esso disfunzionale. Per dirlo con le parole di Lee: «Proprio come la struttura del sistema fiscale cinese contribuisce a spiegare perché la capacità produttiva si sia espansa così rapidamente in Cina, la struttura del sistema finanziario del Paese contribuisce a spiegare perché tale capacità sia spesso duplicata e inefficiente. I flussi di credito rafforzano ripetutamente lo stesso pregiudizio: costruire rapidamente, costruire in modo visibile e costruire con il sostegno statale». Le banche cinesi, controllate dallo Stato, si trovano spesso ad affrontare normative severe sui prestiti e sugli investimenti, quindi preferiscono concedere prestiti a progetti a basso rischio che dispongono di beni materiali che possono fungere da garanzia e che hanno già autorizzazioni normative e sponsorizzazioni governative. «Dal punto di vista della gestione del rischio, questa preferenza è comprensibile. Ma il risultato è un sistema che dirotta i capitali verso fabbriche, linee di produzione e infrastrutture fisiche, che tendono a generare profitti relativamente bassi».
Il dominio mondiale nella produzione
Questo, spiega ancora Lee, è uno dei motivi per cui, in passato, la Cina è arrivata a dominare la produzione mondiale di abbigliamento, giocattoli ed elettronica, e perché oggi domina nei veicoli elettrici, nei pannelli solari e nelle batterie. «Ma la conseguenza è un’economia con una velocità di sviluppo di livello mondiale ma una redditività cronicamente bassa. Quando la domanda diminuisce o il mercato diventa affollato, le aziende tagliano i prezzi ed espandono le esportazioni per mantenere la produzione in funzione, erodendo ulteriormente i loro margini. Le case automobilistiche cinesi, ad esempio, hanno visto i margini di profitto medi scendere dal 5,0% nel 2023 al 4,4% nel 2024, mentre inseguivano quote di mercato attraverso forti sconti» (qui un articolo di Maurizio Bertera per Corriere Motori).
La conseguenza, anche in questo caso, è stata di alimentare un circolo vizioso, una spirale perversa: «Margini di profitto persistentemente bassi significano che le aziende hanno poca liquidità da reinvestire nello sviluppo dei prodotti e nelle assunzioni; questo a sua volta deprime la crescita del reddito delle famiglie e la domanda dei consumatori. In questo modo, la sovraccapacità diventa più di un semplice problema settoriale: agisce come un freno per l’economia cinese nel suo complesso, bloccandola in un ciclo di bassi profitti, investimenti deboli, lenta creazione di posti di lavoro e domanda costantemente debole».
Il capitale di rischio privato in circolazione, che poteva fornire un’alternativa al sistema bancario, ha iniziato a prosciugarsi dopo la stretta del governo soprattutto sulle aziende tecnologiche, iniziata cinque anni fa (il 3 novembre 2020 ci fu lo stop del governo alla Ipo da 37 miliardi di dollari di Ant, braccio finanziario di Alibaba, con conseguente «esilio» del miliardario Jack Ma). Da quel momento, scrive ancora Lee, «gli investitori si sono improvvisamente resi conto che interi settori potevano essere sconvolti da un giorno all’altro da un decreto normativo. Questa incertezza ha reso gli investitori privati più cauti e molti hanno iniziato a ritirare i capitali». Vale anche, o forse soprattutto, per quelli stranieri: gli investimenti transfrontalieri in Cina sono crollati da 67 miliardi di dollari nel 2021 a soli 19 miliardi di dollari nel 2023. Gli investitori Usa, in particolare, sono stati assenti dalle operazioni più importanti.
Pechino ha provato a colmare il «buco» nei finanziamenti privati con nuovi fondi d’investimento statali per le imprese. Ma il «baco comunista» non ha tardato a manifestarsi anche in questo caso: «I funzionari che gestiscono questi fondi statali sono riluttanti a fare scommesse audaci perché qualsiasi fallimento potrebbe essere visto come un uso improprio di denaro pubblico o, peggio, come corruzione».
Nelle sue conclusioni, Lee non fa sconti: «Senza riforme significative, la Cina, nel suo tentativo di risalire la catena del valore e di entrare in settori avanzati come l’intelligenza artificiale e la biotecnologia, rischia di ripetere gli stessi errori del passato, con conseguenze potenzialmente ancora maggiori per la sua economia. (…) Pechino non può sperare di compiere progressi significativi senza riprogettare la struttura di incentivi che sta causando la sovraccapacità. (…) Smantellare la sovraccapacità produttiva non è solo un aggiustamento economico. È la prova definitiva della capacità di Pechino di autocorreggersi e di stabilire se il modello cinese abbia raggiunto una fase di stallo o se possa nuovamente raggiungere nuove vette».
Esistono certo visioni molto più ottimiste sulle prospettive del modello cinese (basti pensare al recente La Cina ha vinto, di Alessandro Aresu: qui una sua intervista con Luca Picotti di Pandora Rivista). Ma l’analisi di Lee va comunque meditata. E forse lo sta facendo anche il presidente cinese Xi Jinping. Della recente ricomparsa di Jack Ma (del quale Aresu, nel suo libro, ha sottolineato che «mai nessuno è stato umiliato come lui, in tempi recenti, per aver sfidato il potere finanziario e regolatorio del Partito, per aver suggerito che il potere in Cina può essere conteso, o sospeso»), Valentina Iorio ha scritto che «la riabilitazione di Jack Ma e più in generale il nuovo approccio di Xi nei confronti dei colossi privati è funzionale a rilanciare l’economia cinese. La crisi del settore immobiliare, così come i tentativi del governo di frenare le Big Tech, hanno indebolito la fiducia degli investitori e dei consumatori con un impatto negativo sulla crescita».
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28 ottobre 2025 ( modifica il 28 ottobre 2025 | 11:44)
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