È bastata una soffiata, un sospetto nato sul filo delle perizie, perché la polizia tedesca si occupasse di una vicenda complessa, che tocca i confini mobili dell’autenticità e dell’illusione estetica. La notizia è di queste ore: un gruppo di collezionisti, intermediari e artigiani dell’immagine – soprattutto anziani – è oggi al centro di un’indagine che riguarda presunti falsi attribuiti a Rembrandt, Picasso, Frida Kahlo, Rubens, Van Dyck, Miró, Modigliani.
Le autorità tedesche e svizzere hanno eseguito perquisizioni coordinate, sequestrando diciannove opere e una mole di documenti: lettere, attestati, relazioni tecniche, perizie che ne avvaloravano l’origine. Al centro, un uomo tedesco di settantasette anni, colto e riservato, che avrebbe gestito i contatti; attorno a lui, un piccolo circuito di conoscenze che includeva appassionati d’arte e qualche esperto che redigeva certificazioni. Ma il profilo che più colpisce è quello di una anziana signora svizzera di ottantaquattro anni, collezionista da sempre, che custodiva in casa una tela ritenuta da lei stessa un Rembrandt autentico, identificato con De Staalmeesters, “I campioni del drappiere”, uno dei dipinti più celebri dell’artista. Credeva, o forse voleva credere, che il quadro del Rijksmuseum di Amsterdam fosse la copia, e il suo l’originale. L’opera era stata valutata centoventi milioni di franchi svizzeri, equivalenti a circa centoventicinque milioni di euro, una cifra che, se confermata, l’avrebbe collocata tra i dieci dipinti più costosi al mondo.
È importante ricordare che possedere una copia – o reputata tale – non è un reato. La distinzione cruciale, dal punto di vista giuridico, è tra chi commissiona o vende consapevolmente un falso come autentico e chi ne è, eventualmente, vittima o illuso. Nel mondo dell’arte, nel quale un dipinto può cambiare radicalmente identità economica e simbolica – quadri ritenute copie e o repliche che diventano originali, anche ufficialmente -; l’illusione o la speranza motivate sono parte integrante del gioco. Non di rado anche mercanti e galleristi esperti sono caduti in errore per desiderio di riportare alla luce ciò che la storia sembrava aver perduto. Del resto questa spinta è spesso origine di importanti, autentiche scoperte.
In questo caso specifico bisognerà che i giudici valutino, senza pregiudizi, quanto è falsificazione palese, commissionata, e quanto è presunzione di conoscere o, meglio sarebbe dire, quanto è ipotesi ragionevole. Secondo le prime informazioni, il gruppo avrebbe tentato di collocare sul mercato altre opere con valutazioni comprese tra 400.000 e 14 milioni di euro, presentando documentazioni di provenienza e certificati di autenticità, che secondo l’accusa, sarebbero stati costruiti con grande abilità. In alcuni casi le carte erano accurate, coerenti con i cataloghi ragionati, firmate da specialisti riconosciuti — o da chi si presentava come tale. Le autorità tedesche hanno individuato un uomo di settantaquattro anni, nel Palatinato, che avrebbe fornito perizie apocrife, capaci di conferire legittimità estetica e storica ai dipinti. Ma a questo punto devono entrare in gioco periti calligrafi. Anche loro forniscono ipotesi, pur accreditate, che spesso sono in conflitto con quelle di colleghi. La materia non è semplice. Il dolo – e la reale consistenza di un eventuale rete – è dimostrabile palesemente solo con intercettazioni telefoniche, conversazioni, colloqui.
Ma il vero nodo non è solo giuridico: è culturale. In un mondo in cui l’autenticità è divenuta un valore assoluto – un mondo che fornisce anche filmati falsi, attraverso l’inteltificiale – , la prova della falsificazione diventa quasi un test di fede. La forza di questi casi risiede nella loro verosimiglianza: tele e pigmenti coerenti con l’epoca, cornici d’epoca, documenti invecchiati, in alcuni casi, artificialmente. A volte basta un’ombra, una firma, un’analogia stilistica per spostare il giudizio dell’esperto, che è comunque un’ipotesi attributiva. E quando la perizia è costruita con cura, il confine tra vero e falso diventa più sottile del tratto di un pennello.
C’è poi un ulteriore elemento di complessità, che riguarda soprattutto l’arte antica. Molti maestri — da Tiziano a Rubens, da Veronese a Rembrandt stesso — avevano botteghe capaci di replicare i soggetti più richiesti, spesso con la collaborazione diretta del maestro. In alcuni casi le varianti erano commissionate da committenti diversi, altre volte servivano come esercizio di bottega o modello per nuovi apprendisti. Così, non di rado, più versioni dello stesso soggetto convivono in collezioni diverse, con interventi d’autore più o meno estesi. In alcuni casi erano gli stessi maestri a creare repliche o varianti dello stesso quadro, considerato il fatto che, impostato un lavoro, era più redditizio produrne due o tre. E tutto ciò è – naturalmente, com’è ovvio – su inconfutabili tele dell’epoca e pigmenti della stessa tavolozza del maestro. Noi tutti, consideriamo l’attività degli artisti, secondo una lettura romantica, come azione di un genio solitario, che aveva in scarsa considerazione il guadagno. In realtà per la quasi totalità degli artisti, la pittura era frutto di un lavoro complesso, svolto con passione e con il desiderio – legittimo – di mantenersi, con essa, e di migliorare la propria posizione sociale ed economia.
Esistono poi dipinti antichi che, specie nell’Ottocento o nel primo Novecento, venivano copiati, per esercizio e introiezione del modello, da pittori o studenti delle accademie – che sovente si recavano nei musei proprio per questo lavoro di apprendimento – magari su vecchie tele, che avevano la stessa grana degli originali. Poichè la grana della tela asseconda un dato gesto tecnico. Per esercitarsi, in alcuni casi, pittori moderni dipingevano alla “maniera di” un grande autore del passato, avendo assimilato lo stile dell’autore stesso e dimostrando di essere capaci di produrre ciò che il pittore del passato non aveva dipinto ma che avrebbe potuto dipingere. Poi c’erano i dilettanti d’alto livello, borghesi o nobili che amavano dipingere, come hobby, e che affrontavano gli stessi esercizi di stile dei pittori professionisti e dei loro allievi. Il Louvre ospitava pittori e cavalletti, per questo lavoro culturale prezioso. Ora migliaia di tele legate a queste attività possono giungere sul mercato.
Determinare quale sia “l’originale” diventa allora un terreno di sottile discernimento, in cui lo sguardo stilistico deve allearsi con l’analisi scientifica. E spesso non basta neppure quella, come labili sono i confini sono tra verità ed errore nei casi di omicidio, di dna, di impronte digitali, di impronte di scarpe. Ed è proprio questa zona grigia — tra l’opera autografa, la replica, la copia e il falso deliberato — a rendere la valutazione dei pezzi più complessa. All’interno della categoria che unisce copie, repliche, varianti, ci sono anche i casi di falsi deliberati, in cui artisti – tra sfida narcisistica e brama di guadagno -oltrepassavano la soglia del lecito esercizio di stile.
Wolfgang Beltracchi, in Germania, per anni vendette opere “inedite” di Max Ernst, Léger, Campendonk, corredate da fotografie d’epoca falsificate e genealogie collezionistiche inventate. Quando fu scoperto, ammise di aver amato sinceramente gli artisti che imitava: «non ho copiato, ho continuato le loro opere».
Prima di lui, Geert Jan Jansen aveva prodotto decine di falsi Miró, Chagall e Picasso, esposti persino in gallerie rispettabili. La sua vicenda terminò in un processo in Francia nel 2000, ma le sue tele, paradossalmente, sono oggi ricercate come esempi di abilità tecnica e inganno estetico.
E ancora, nel 1929, Han van Meegeren riuscì a convincere i maggiori esperti olandesi che i suoi falsi Vermeer erano autentici capolavori del Seicento. Quando fu arrestato, per provare la propria innocenza — accusato allora di collaborazionismo per aver venduto “un Vermeer” a Göring — dipinse in carcere un nuovo Vermeer, sotto gli occhi della polizia. Il confine tra artista e falsario, in quel gesto, si dissolse.
Questi episodi non sono eccezioni marginali: raccontano la natura ambigua dell’arte, dove la verità non sempre coincide con la materia, ma spesso con la reputazione, la documentazione, la voce di un esperto. Ciò che un museo o una fondazione riconosce come autentico entra nel canone; ciò che viene escluso, anche se pittoricamente identico, cade nell’ombra. È per questo che ogni falso ben costruito non è soltanto una menzogna materiale, ma una sfida epistemologica: mette in discussione il modo stesso in cui riconosciamo e legittimiamo il genio.
Il gruppo oggi sotto indagine è un’organizzazione criminale in senso classico – come dice la polizia -, o è un microcosmo di passioni e illusioni? Qualcuno può aver operato con consapevolezza, qualcun altro spinto da ingenuità o desiderio di credere. In fondo, anche nel collezionismo esiste un sottile piacere dell’illusione: quello di poter dire “forse è un originale”. Non a caso, molti falsi celebri continuano a circolare, dichiarati come tali, eppure apprezzati dal pubblico proprio per la loro potenza evocativa.
Il fascino del falso nasce dalla sua intelligenza: non è un errore, è una imitazione consapevole della verità, una prova di empatia tra il falsario e l’artista. E quando la mano è davvero maestra, la differenza tra i due può diventare invisibile. Oggi, con le tecnologie digitali, con l’intelligenza artificiale capace di riprodurre stili pittorici in modo filologico, questa soglia si fa ancora più fragile. Che cosa è, allora, “originale”? È il primo gesto, o l’intenzione che lo anima?
La storia di questi dipinti — forse autentici, forse no — si colloca proprio su questa frontiera. Forse nessuno, nel gruppo indagato, voleva ingannare in modo deliberato: forse inseguiva solo un sogno estetico, una possibilità. Come accade spesso nel collezionismo, l’illusione diventa parte dell’esperienza. E mentre gli inquirenti cercano di ricostruire i movimenti delle opere, gli esperti del mercato osservano il caso come un monito.
L’arte, da sempre, vive della dialettica tra luce e ombra, tra rivelazione e inganno. Ogni volta che un falso emerge, ci ricorda la fragilità della nostra fiducia e, al tempo stesso, la forza della nostra aspirazione al vero. Il genio, l’imitazione, l’inganno e la fede — sono capitoli dello stesso racconto, quello dell’uomo che guarda un dipinto e sente di trovarvi, anche solo per un istante, la verità che desidera credere.
