Istantanee di un Veneto remoto, fatto di lavatoi al fiume, bici nei parchi, messe della domenica. E una vita dorata da cui ad un certo punto si desidera solo fuggire. Una piccola città, la provincia e quella villa settecentesca piantata tra le campagne. un viaggio circolare. Dopo «Narcisismo Perverso. Amore Fatale» (Vallecchi) il libro che ha come la protagonista occulta sua madre Marta, ora Paola Marzotto ha deciso di dare forma scritta alle memorie dell’infanzia. Una geografia dolceamara in cui il Veneto ha un posto di diritto e che presto diventerà un libro come racconta l’autrice in anteprima al Gazzettino. Apprendistato teatrale con Grotowski e poi alla Strasberg a Hollywood, giornalista, designer, fotografa, esponente politica (con l’Italia dei Valori dal 1999 al 2006) e infine attivista ambientale, Paola è la primogenita di Marta e Umberto Marzotto oltre che madre di Carlo e di Beatrice Borromeo, ora principessa di Monaco.

APPROFONDIMENTI













Che cosa sarà «Il deposito delle memorie»?
«Un libro di ricordi, il libro di un’infanzia nella Portogruaro degli anni ’50 con mia mamma che diceva “hanno mollato i leoni”. Proprio lei poi, che dopo un’infanzia umile in Lomellina era stata proiettata in questa situazione matrimoniale decisamente privilegiata che però lei ad un certo punto iniziò a trovare soffocante. Però aveva ragione su una cosa: negli anni Cinquanta a Portogruaro non c’era molto da fare. Non era mica come oggi».

È vero che prendevate la macchina e andavate in montagna cantando tutti insieme?
«Sì, Cortina per noi era un mondo molto allegro. Partivamo insieme in auto urlando “Bombardano Cortina”, ma anche “Bella ciao”. In estate dormivano nei rifugi».

Come ricorda Portogruaro?
«Era già una cittadina, ma si faceva vita di paese. La cosa che mi fa piacere è che conservo ancora delle care amiche d’infanzia».

Cosa suscitava in lei Villa Stucky? Una specie di prigione dorata?
«Noi vivevamo da principesse e ne eravamo ben consapevoli. Era un palazzo antico, enorme e meraviglioso, con un parco immenso. Immersi nei ritmi antichi della provincia. Eravamo seguiti dalle bambinaie, non potevamo uscire ma ci venivano a trovare gli amici e le amiche».

Non potevate uscire?
«Era la stagione dei sequestri. Mia madre era diventata molto ansiosa, quindi c’erano molte cautele. La domenica però andavamo con le tate a messa».

Insomma la cartolina perfetta del Veneto bianco.
«Era davvero così. A me non piaceva tanto fare la principessa però, e c’era una cosa che mi metteva tanto a disagio».

Cosa?
«Quando a Natale ci portavano in azienda a dare i panettoni agli operai. Era un momento di festa, ma in fondo venivano sottolineate delle differenze. Pur comprendendo perfettamente la mia fortuna, questo clima da principessine in realtà non l’ho mai amato».

Ma è vero che sua madre la portava al cinema di pomeriggio?
«Lei probabilmente cercava vie di fuga e quindi veniva a prendermi in macchina a scuola e poi portava me e mia sorella a vedere questi kolossal girati a Cinecittà. C’erano serpenti dappertutto: io ero atterrita, di notte avevo gli incubi».

Sua madre la portava anche dall’analista. Aveva 12 anni e non fu una rivelazione…
«Infatti. Mia madre era una donna molto curiosa e credo anche le piacesse l’idea di mandarmi, le sembrava una cosa sofisticata. Era molto amica di Giuseppe Berto, che stava scrivendo «Il male oscuro» e andava da Servadio, presidente della società freudiana. Ci aveva mandato anche lei. E lei portò me. Io non avevo niente da confessare, ero una bambina, lui guardava l’orologio in silenzio. Che imbarazzo. Sembrava un film di Woody Allen».

C’è stato un momento esatto in cui da giovani agiate di provincia avete iniziato a diventare più note nel jet-set?
«Ho un ricordo nitido. Cristiana di San Marzano è stata la prima a fare un’intervista a mia madre. Ci hanno costruito un servizio fotografico molto particolare, un po’ folk. Il titolo era: Le ultime castellane d’Italia. Da lì è iniziata l’ascesa pubblica della mamma».

Marta non amava Portogruaro…
«Credo sentisse una grande solitudine. Era molto inquieta: andava a Venezia poi Trieste. Mentre papà era una presenza costante».

Fu lui a instillare l’amore per il Sudamerica..
«Mio padre mi portava a casa queste buste tagliate e io col vapore tiravo via i francobolli. Ne amavo tre in particolare: Evita, i tre Tucani e Las Cataratas del Iguazu. Sentivo questa parola, Argentina, per me aveva un suono meraviglioso. La prima volta ci ho messo piede a 19 anni. Ero a Buenos Aires quando i carri armati di Videla hanno attraversato la città. Poi sono tornata con i miei figli. Alla fine ho scelto l’Uruguay che oggi è, insieme a Milano, la mia casa».

Il suo libro precedente è in parte dedicato a sua madre. Afferma che soffrisse di narcisismo perverso. Eppure le voleva bene.
«Adoravo mia madre. Le sono sempre stata vicina. Sia dopo la separazione, sia nelle varie vicissitudini economiche, e in ultimo durante la malattia. Persino adesso mi viene da prendere su il telefono e chiamarla».

Perché ricorda suo padre Umberto Marzotto come “il Mite”?
«Lo era. Ne ho un ricordo affettuoso, era una specie di gentleman inglese, i miei fidanzatini lo adoravano perché era sempre affabile. Soffrì molto quando ci fu la separazione, eravamo su tutti i giornali».

Trascorrevate le estati al Lido.
«In un’atmosfera molto da Morte a Venezia. Stavamo nella villa del nonno e avevamo il capanno al Des Bain. Io ricordo un caldo mortale, le fontanelle con lo zampillo e il cocco, i primi venditori con i tappeti sulle spalle. Una volta le balie persero pure mio fratello».

Paola Marzotto e la musica…
«Era l’epoca dei Beatles e io volevo studiare chitarra. Mi trovarono un maestro ma durai poco perché amava più le soste al bar che le lezioni di musica. Mia sorella era portatissima per il pianoforte, davvero brava. Io invece ero negata per il solfeggio. Un incubo».

Meglio con la danza?
«Si, facevo lezione in un mulino in pietra».

Ad un certo punto vostra madre si trasferisce a Roma, e la claustrofobia della provincia finisce.
«Mia madre aveva affittato una casa in Passeggiata di Ripetta. Stava già con Guttuso, io e mia sorella Annalisa andiamo a vivere con lei. In quello stabile aveva abitato Keats. Poi nel 1973 ci siamo trasferiti in piazza di Spagna. Non dimentico il fermento di quella Roma, la nostra casa era uno dei ritrovi culturali più dinamici della città».

L’ultimo ritorno a Portogruaro?
«Erano gli anni del ginnasio e già il mondo era cambiato. Era arrivata in paese l’Equipe 84».