È l’arma di ricatto più efficace che Xi Jinping ha potuto sfoderare nel corso della trattativa commerciale con Donald Trump: il monopolio quasi totale che la Cina ha sulle terre rare, essenziali soprattutto per produrre magneti dagli svariati usi industriali.
Questo dominio cinese è un problema perfino superiore per l’Europa, ancora meno provvista di filiere di approvvigionamento autonome. Gli ottimisti pensano che questo ricatto cinese sia destinato a esaurirsi nel tempo: una volta usato al tavolo negoziale, chi ne è stato vittima corre ai ripari. Qualcosa di simile accadde al Giappone nel 2010, quando subì un embargo di terre rare da parte cinese: da allora governi e industriali nipponici si sono attivati per trovare altri fornitori in giro per il mondo. In America la reazione è cominciata: si tornano a sfruttare miniere in disuso su territorio nazionale, i capitali pubblici e privati affluiscono in questo settore che era stato abbandonato. Poi c’è la creatività: già cominciano a spuntare innovazioni tecnologiche per produrre magneti senza l’uso di terre rare. Però non sarà possibile affrancarsi velocemente dalla dipendenza.
Quello che è sconcertante, è come si sia arrivati a questo punto. Perché un tempo a dominare la produzione e trasformazione di terre rare… erano gli Stati Uniti. Come gli americani nel corso dei decenni abbiano regalato alla Cina il controllo dei magneti prodotti con terre rare, lo ricostruisce un’inchiesta di Daniel Kishi, che appare sul sito di American Compass. È la storia di una catena di errori accumulati dai governi americani, e occidentali. Eccone i passaggi essenziali.
Le terre rare — un gruppo di 17 elementi chimici dalle proprietà magnetiche, ottiche e catalitiche — sono componenti essenziali nella produzione moderna, sia civile che militare. Entrano in componenti che (per adesso) non hanno alternativa, per esempio magneti potenti che convertono energia elettrica in moto e precisione. Questi magneti alimentano motori elettrici, robot, superfici di controllo aeronautiche, satelliti, finitura di missili, apparecchiature mediche.
La vulnerabilità dell’Occidente non sta nella rarità fisica delle rocce — difatti le terre rare non sono geologicamente rarissime — ma nella complessità del processo: estrazione, raffinazione chimica ad alta purezza, produzione di magneti affidabili in scala. Solo pochi paesi, e pochissime aziende, possono farlo in modo redditizio e su larga scala.
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La Cina ha oggi un controllo molto ampio su questa catena: detiene il 70% dell’estrazione globale di terre rare (anche in altri continenti), il 90% della raffinazione e separazione chimica, e più del 90% della produzione di magneti a base di terre rare. Questa concentrazione dà a Pechino un potenziale «punto di strangolamento» (chokepoint) che può essere usato per mettere sotto pressione l’industria e la difesa di altri paesi, in particolare degli Stati Uniti.
Kishi ricostruisce come gli Stati Uniti una volta avevano una catena integrata «dalla miniera al magnete», ma l’hanno persa progressivamente. Negli anni ’50 e ’60 la miniera di Mountain Pass in California deteneva un dominio mondiale nella produzione di terre rare. Poi la ricerca negli Stati Uniti e in Giappone portò allo sviluppo del magnete neodimio-ferro-boro negli anni ’80 — un passo cruciale per la miniaturizzazione e l’industrializzazione di massa dei magneti potenti. General Motors creò Magnequench: produceva polveri e magneti negli Stati Uniti, che entrarono anche in applicazioni militari come i carri armati M1 Abrams.
Tuttavia, nel corso degli anni ’80 e ’90 diversi fattori indebolirono questa leadership americana. La concorrenza asimmetrica: la Cina, con una politica industriale diretta, sussidi, agevolazioni fiscali e senza vincoli ambientali, avviò la propria industria nascente delle terre rare e dei magneti. Nel 1992 Deng Xiaoping dichiarò pubblicamente il valore strategico delle terre rare per la Cina: «Il Medio Oriente ha il petrolio; la Cina ha le terre rare». Gli Stati Uniti permisero la vendita ad aziende cinesi di tecnologie chiave. Un esempio emblematico: nel 1995 GM vendette Magnequench a un consorzio che includeva aziende statali cinesi. Il comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS) avrebbe potuto bloccarla ma non lo fece. Subito dopo, la produzione negli USA cessò, venne trasferita all’estero e impianti chiave furono chiusi. Problemi di regolamentazione ambientalista negli Usa (ad esempio la miniera di Mountain Pass fu fermata dal 1998 per perdite di acque reflue) contribuirono al declino dell’industria domestica. Nel frattempo, la Cina consolidava la propria catena: tramite quote di esportazione, dazi, sgravi fiscali per i produttori nazionali, centralizzazione delle imprese, controllo delle transazioni e import/export. Questo rese la Cina il centro globale per le terre rare e i magneti.
Cosa si rischia? Se la Cina decide di esercitare la leva che detiene, può bloccare o ritardare l’esportazione di materiali critici, aumentare i costi d’ingresso per gli altri paesi, imporre condizioni contrattuali aggressive, come arma geopolitica.
Il precedente-chiave è una disputa fra Pechino e Tokyo nel 2010. Un incidente nel Mar della Cina orientale fu l’occasione per la Repubblica Popolare di limitare l’esportazione verso il Giappone; i prezzi delle ossidi delle terre rare salirono rapidamente. Un produttore statunitense (Molycorp) provò a riaprire Mountain Pass, entrò in Borsa per finanziare il rilancio. A quel punto la Cina ripristinò l’export e aumentò la propria produzione sovvenzionata, facendo crollare i prezzi in modo da far fallire l’industria americana. È una tattica illegale in base alle regole del commercio mondiale, ma usata sistematicamente da Pechino: vendere in dumping per uccidere la concorrenza estera sul nascere.
Kishi propone che la risposta passi attraverso una politica industriale attiva — non affidandosi solo alle forze del mercato — perché, visti i metodi cinesi, o si mette in campo tutta la forza dello Stato attraverso la politica industriale, oppure si subirà quella di altri.
Negli Stati Uniti, questa via richiede alcuni elementi fondamentali elencati in questa ricerca:
1. Ripristinare una catena integrata «dalla miniera al magnete» sul suolo statunitense o in paesi alleati, includendo estrazione, raffinazione, produzione di magneti. Non trattare queste fasi come industrie separate, bensì come un sistema unitario.
2. Utilizzare strumenti di politica industriale: prestiti pubblici, garanzie, contratti di acquisto a lungo termine con prezzi minimi garantiti per rendere economicamente sostenibili i progetti privati, protezione tramite dazi o altre misure contro la concorrenza predatoria di paesi sovvenzionati.
3. Coordinamento fra pubblico e privato: la pandemia ha mostrato (con Operation Warp Speed lanciata dalla prima Amministrazione Trump per accelerare la scoperta e produzione dei vaccini) che una stretta alleanza tra governo e industria privata può accelerare il progresso tecnico e industriale.
4. Protezione della nuova capacità: non solo costruirla, ma garantirne la continuità, evitare che i produttori vengano distrutti dalla concorrenza estera sovvenzionata, e assicurarsi che il know-how resti nel paese.
Kishi nota che ci sono alcuni segnali incoraggianti: per esempio, nel 2021 General Motors si è impegnata a ricostruire una catena di magneti domestica firmando contratti a lungo termine.
L’Amministrazione Trump ha avviato una partnership pubblico-privata con la società MP Materials che possiede la miniera di Mountain Pass, nella quale ha preso una partecipazione il Pentagono. Il modo in cui Xi Jinping ha usato con successo la sua arma di ricatto potrebbe accelerare il risveglio del gigante addormentato, quell’America che era stata nella posizione dominante prima degli altri.
31 ottobre 2025, 08:57 – modifica il 31 ottobre 2025 | 09:34
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