Due giorni funesti per Napoli e in parte per chi scrive. Qui da noi diremmo “E che jurnata ‘e mmerda ca è schiarata!”.
Quattro decessi significativi hanno listato a lutto le strade dell’arte e della cultura di Partenope.
Quattro personalità diversissime. Quattro voci che mancheranno ad una città che sembra smarrire anche sé stessa, nella nuova configurazione urbana sempre più elitaria e sempre meno popolare voluta dalle classi dirigenti che ne governano i destini.
Proviamo qui ad offrirne frammenti di ricordi, riavvolgendo il nastro della memoria prima che la civiltà dell’eterno presente lo smagnetizzi del tutto.
L’altro ieri se ne andava a 91 anni il maestro Mimmo Jodice, spegnendosi serenamente nella sua amata Napoli. Città che fu al tempo stesso origine, materia e destino della propria arte.
Considerato tra i più grandi maestri della fotografia contemporanea, Jodice ha attraversato oltre sessant’anni di intensa attività dedicando la sua ricerca al mistero del tempo e al potere della memoria. Interrogando il mondo con lo sguardo di chi sa che ogni immagine può essere densa espressione di pensiero.
La sua fotografia rigorosa e lirica è stata un esercizio continuo di presenza tra le ferite della Storia. Il suo bianco e nero, mai estetizzante, era una lingua di luce capace di far emergere dal reale la dimensione metafisica, conferendo corpo all’assenza e dignità al silenzio.
Le sue immagini rivelano una Napoli mai folkloristica, mai stereotipata, radicata viceversa in una dimensione arcaica e senza tempo dove si dipana un dialogo costante con l’antico.
Autodidatta, nato nel marzo del 1934 al Rione Sanità, Jodice fu protagonista della scena artistica napoletana degli anni Sessanta, collaborando con figure come Andy Warhol, Joseph Beuys e Sol LeWitt.
Tra i suoi lavori più emblematici restano le Vedute di Napoli e la serie Anamnesi, nella quale lo sguardo del fotografo incontra i capolavori del Museo Archeologico, trasformandoli in meditazioni sull’identità e sulla permanenza del passato.
Docente per molti anni all’Accademia di Belle Arti di Napoli, Jodice è stato un punto di riferimento per intere generazioni di giovani fotografi ai quali ha trasmesso non soltanto la tecnica ma soprattutto una visione etica, poetica e politica del vedere.
La sua eredità rimane dunque come una luce sospesa tra memoria, arte e infinito. Una certa idea di fotografia che non si accontenta di rappresentare ma cerca di capire, di restituire senso al reale. In un tempo veloce che lo divora e lo consuma.
Nello stesso momento ci lasciava il compagno Tony Meleddu. A molti questo nome sardo non dirà nulla ma per molti di noi, frequentatori abituali del centro storico di Napoli, Tony era un amico. Per me un occasionale compagno di strada.
Ci incrociavamo di tanto in tanto nei luoghi di una Napoli underground feroce, ansiosa, livida. Ma anche impegnata, politicamente vivace, capace di sperimentare nuove traiettorie aggregative e nuovi linguaggi espressivi.
Eravamo alla fine dei laceranti anni ’80 e agli inizi dei disgreganti ’90. Tra i gradini di Piazza del Gesù, lo Ska, Lazzarella, l’Orientale. E la Bottiglieria. Locale di Piazza Cavour: raduno di punk, microcellule, anarchici e tossici come me. Quasi sempre ubriachi, ci scambiavano parole in libertà e divertimento.
Erano gli anni della Pantera e Meleddu era il leader di un gruppo punk che lasciava vibrare corde ed emozioni tra le facoltà occupate e il Tien’ a Ment di Soccavo.
Era simpatico Tony Meleddu. Molto. Non lo vedevo da oltre dieci anni. Ieri l’altro ho saputo che se n’è andato per sempre. Il centro storico di questa Partenope sfregiata perde un altro pezzo di vita. Ciao Meleddu. Occasionale compagno di strada.
Neanche il tempo di una notte e ieri il sole di Napoli torna a tingersi di nero. La città però sembra non accorgersene, persa nel frastuono post-post moderno di turisti in fila per un cuoppo, una mozzarella, una pizza, una pasta e patate o nu cuzzetiello c’ ‘o ‘rraù.
Mentre la cultura e il lavoro vanno a farsi fottere tra le piaghe di una Sirena venduta per pochi euro su un banco del pesce che puzza di marcio.
Come ai tempi degli occupanti americani. Untori – per parafasare Malaparte – di quella peste morale che da allora sembra aver ulcerato questa città.
Apprendo infatti da facebook – oramai i necrologi si alternano sui social alle pubblicità e ai reel di cucina: nuovo step nel delirio entropico della civiltà dei consumi e del capitale divenuto visione – apprendo, dicevo, la notizia della morte prematura, troppo prematura, dell’amico e compagno Diego Sepe.
Attore e regista, membro di una famiglia di intellettuali e teatranti – il fratello Pierpaolo e lo zio Giancarlo – che hanno dato tanto e tanto continuano a dare alla cultura della nostra città.
Con Diego abbiamo fatto l’occupazione del Teatro Mercadante, durante il tremendo periodo del Covid. Assemblee e vivaci discussioni in piazza.
Lo avevo incontrato una prima volta nel ’96 credo, al Nuovo, durante uno dei primissimi spettacoli di Pierpaolo: “La nascita della tragedia”. Lo avevo sentito invece un’ultima volta due o tre anni fa, non ricordo.
Un “dolce principe” come ha scritto il fratello su facebook, che Il male del secolo – un tumore alle vie biliari – ha strappato alla vita e all’arte a soli 52 anni.
Scrollo le pagine e arriva l’ultima mazzata. In termini di popolarità, di appartenenza, di identità culturale e linguistica forse la più tosta.
L’episteme di questa città bastarda e meticcia, plebea e aristocratica, ci aveva lasciati. Se n’era andato James Senese.
Il più funambolico sassofono all’ombra del Vesuvio. Una lava incandescente le note che venivano fuori dal suo sax. Una voce nera, sporca, ruvida che ringhiava incazzata contro il potere e la borghesia parassitaria che affamano il proletariato di Napoli.
La musica di James era il blues di un contadino metropolitano “negro” che saliva dalle viscere insanguinate delle periferie di questa città.
Un blues a tratti struggente a volte grondante odio di classe. Sempre contaminato da sonorità funky, soul, jazz.
La poesia della strada tra rap e rhythm&blues, boogie e melodie arabo-mediterranee. Un groove che dal Bronx napoletano arriva a New Orleans. Dal Mississippi si perde tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli.
Nato a Miano, figlio di un soldato afroamericano che poi abbandonò la madre, Gaetano James Senese fu il fondatore della mitica formazione Napoli Centrale insieme a Franco Del Prete, dopo l’esperienza degli Showmen.
Il nome Napoli Centrale gli fu suggerito da Raffaele Cascone, altro personaggio da romanzo – musicista, conduttore di Per voi giovani, giornalista e filosofo prestato alla psicologia – partorito dal ventre demoniaco di questa città anarchica, esuberante, tanatoica.
Quella Napoli magmatica che a partire dall’inizio degli anni Settanta, fino alla prima metà degli anni Novanta – tra l’emersione di un nuovo proletariato metropolitano, l’illegalità diffusa, la politicizzazione del sottoproletariato marginale, le battaglie per la casa ed il lavoro, la lotta armata dei Nap e delle Br, l’eroina a fiumi – cercava nuovi linguaggi e nuove forme di aggregazione.
Pratiche sociali antagoniste, percorsi espressivi e artistici controegemonici. Sperimentazioni e traiettorie d’avanguardia.
James fu il corifeo dionisiaco di quel Neapolitan Power che segnò la stagione musicale e artistica del decennio ’70/’80, con strascichi nei primi ’90.
Fu il sax coinvolgente, nervoso, folle, struggente, persino lacerante delle formazioni di Pino Daniele. Come dimenticare le note di Chi tene ‘o mare. O come non ricordare la musica e i testi di Campagna, ‘Ncazzato niro, ‘O sanghe.
La sua musica non era bella. Era uno strappo feroce dalla carne di una realtà brutale. Ogni disco era un frammento di città inciso su vinile, un racconto urbano che pulsa tra le note e il cielo violento di Napoli.
Quattro riti funebri. Quattro morti che sembrano marcare un solco tra le generazioni. E così mi ritrovo a pensare e a ricordare…
Centri sociali occupati: Officina 99, lo Ska, Tien’ a Ment. Locali dove fermarsi a bere la sera come il Riot (gestito dall’amico Michele Franco) il Mattone, la Vineria, il Frame Cafè.
O locali punk/dark come il post industriale e lisergico Diamond Dogs, il voluttuoso e vellutato Rookery Nook, il socialisteggiante Kgb, l’evocativo Velvet, il magico Caffè della Luna, il tossicissimo Undergeround dalla breve vita, il londinese Notting Hill.
La Napoli che usciva dagli anni Settanta ed entrava negli anni Ottanta con il rombo di un terremoto devastante, che ne avrebbe cambiato i connotati.
Una Napoli eccitante, sensuale, maledetta. Una Napoli berlinese e decisamente poco borghese. Senza i contemporanei neon di una volgare vetrina dove esporre cibo a buon mercato o cultura senza conoscenza.
Napoli erotica e mortifera. Napoli bipolare: maniacale, depressa, vitale.
Quella vita in eccesso, strappata con i denti ma con l’intensità di un carnale morso d’amore. Un modo di esistere furioso, caotico, libero, che ha segnato un paio di generazioni.
Era in quella città che potevi ammirare le foto di Mimmo. Ascoltare il sax di James. Applaudire i primi vagiti recitatitivi di Diego. Bere una bottiglia e scambiare quattro chiacchiere con Tony.
Un esserci politico e animale che oggi sembra scomparire sotto uno strato di rassegnazione asettica e individualista.
Ma forse eravamo solo più giovani. Battiamo il bicchiere un’ultima volta. Sona guaglò va…
30 Ottobre 2025 – © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: 31 Ottobre 2025, ore 10:30
