Novi Sad, primo novembre 2024. Alle 11 e 52, in pochi secondi, sedici persone perdono la vita. Un’intera città si ferma e si stringe attorno alle famiglie che hanno subito questa tragedia, causata da un vile regime autocratico e la sua corruzione sistematica. La stazione ferroviaria è stata costruita da due compagnie cinesi come parte del progetto di linea ferroviaria Belgrado-Budapest.
Oggi, a causa di quell’episodio, un intero Paese è fermo. Perché noi serbi, popolo slavo e balcano, siamo così: quando siamo arrabbiati e schiacciati non stiamo mai in silenzio, ma urliamo ancora di più e ci prendiamo il nostro riscatto. E ogni generazione ha dovuto riscattarsi in qualche modo, come i miei genitori, e come la diaspora, che è dovuta scappare dal Paese per costruirsi da zero una vita in un qualche posto nell’Occidente, imparare una nuova lingua, sovrastare la burocrazia per risiedere legalmente e costruire una famiglia in cui i figli hanno tutte le opportunità che loro non hanno mai avuto.
Chi è rimasto invece, chi oggi, ragazzi della mia età, si fa picchiare per strada da un gruppo paramilitare sotto il diretto controllo dell’autocrate Aleksandar Vučić, non lo fa solo per l’inat (orgoglio) serbo, ma perché quel crollo ha fatto sentire un popolo solo, inascoltato, lacerato e senza prospettive di futuro. Però la verità è che fino a quella tragedia, stare in Serbia, da fuori, sembrava quasi di stare nella normalità: è vero, a volte c’erano manifestazioni violente in piazza, spesso avvenivano elezioni truccate e la politica era un totale disastro, ma di fatto per strada le persone avevano uno sguardo sì apatico, ma è come se semplicemente vivessero con canoni diversi rispetto a quelli a cui siamo abituati. Dietro però a tutto quel fumo nelle osterie, dietro l’alcol, i caffè e le sigarette, dietro il merak (parola serba intraducibile che esprime il senso di completezza e appartenenza all’universo), si stava dando l’ultimo colpo di martello al chiodo del feretro della democrazia serba. E dietro quegli occhi apatici c’era un’enorme rabbia, paura e tristezza verso un regime autoritario che prende tutto per sé e non tutela invece i propri cittadini.
Al crollo della pensilina un’intera popolazione si risveglia da quell’obnubilamento, tirati alla giacchetta dai coraggiosissimi studenti universitari. L’aria cambia, il fumo scende, ma anche il governo se ne accorge e reagisce. Mobilita i serbi più poveri, quelli che non hanno accesso ai media d’opposizione e in cambio di pochi soldi (e qualche scarcerazione) li rende i soldati di Vučić. Stanno lì per proteggere il parlamento, quasi come se fossero esposti in vetrina per essere dei “bravi cittadini”, analfabeti funzionali che con la scusa di “essere studenti che vogliono studiare” stanno da mesi al parco dei Pionieri di Belgrado con vitto e alloggio pagato dal governo, grazie anche a una grande, magnanima, protezione da parte della polizia.
Quest’estate sono stata a un presidio, prima che diventasse violento, e quello che senti quando sei lì a primo impatto è la rabbia di un popolo. Però senti anche la grande paura e la solitudine che accompagna quella rabbia. Ti senti lontanissimo dall’Europa, nonostante sia al confine, e ti senti perseguitato e controllato, anche quando non stai attivamente manifestando, perché sei in uno stato senza diritto e hai paura di essere arrestato e denigrato pubblicamente in qualsiasi momento. Mi sono sentita come se qualcuno mi stesse affogando, e non vedevo l’ora di riapparire sulla superficie, varcando il confine, per respirare.
Mi chiedo però perché c’è qui in Europa questo grande disinteresse verso la vicenda. Siamo davvero così indifferenti e privilegiati nel non empatizzare né capire cosa sta veramente succedendo al di là dei nostri confini? E nel non capire che questa vicenda può avere dei risvolti disastrosi anche nei nostri confronti?
E noi della diaspora? Noi che stiamo nel mezzo? Siamo addolorati. Perché il dolore non ha luogo e sappiamo che, vuoi o non vuoi, quella terra rappresenterà sempre una casa. Cerchiamo di parlarne con chi possiamo, ma anche noi, come me che sto scrivendo questo articolo, abbiamo paura perché c’è sempre quel rischio di non tornarci più in quella terra. Vediamo gli studenti che dalla Serbia corrono e vanno in bicicletta verso le istituzioni europee e sentiamo che l’Unione europea non fa abbastanza. E ci sentiamo un po’ inutili e un po’ scoraggiati. Ci svegliamo tutte le mattine con i suoni dei fischietti dei reel delle proteste, perché non abbiamo possiamo più vedere N1, principale canale tv d’opposizione serbo, ma cerchiamo sempre di essere vicini, di sentire qualche parente e di essere aggiornati come possiamo.
Sabato a Milano, in piazza San Fedele alle 11:30 come in altre sessanta città sparse per il mondo, commemoriamo le sedici vittime della tragedia del crollo della pensilina di Novi Sad. E non solo per stare vicino al nostro popolo, ma perché vogliamo essere il loro megafono e vogliamo urlare anche noi per loro e avere un nostro ruolo nel percorso verso la democrazia.
A partire da me, che scrivo queste parole sapendo che posso subire delle conseguenze, ma le scrivo perché sono convinta che l’unica cura per superare gli ostacoli difficili e spaventosi è la costanza e la perseveranza.