E’ stata una lodevole iniziativa tradurre dopo quasi sessant’anni il saggio The New Brutalism di Reyner Banham (The Architectural Press, 1966), ormai da tempo non più disponibile neppure in lingua originale. Il Nuovo Brutalismo per i tipi della Pendragon, a cura di Guglielmo Bilancioni e Simona Pareschi (introd. di Marco Biraghi, trad. di Annalisa Marchianò, pp. 224, euro 40,00), è da considerarsi, infatti, il testo principale sulla corrente brutalista giacché scritto da «qualcuno coinvolto, e piuttosto profondamente, negli eventi», come precisò lo stesso critico britannico nel suo saggio. Le sue «idee fisse» le aveva già esposte nel dicembre del 1955, alla nascita in Inghilterra del movimento, sulle pagine di «The Architectural Review». Tuttavia, circa un decennio dopo, Banham volle approfondire una tendenza che negli anni successivi, mentre andava esaurendosi il «contributo britannico», si sarebbe estesa anche ad altri paesi, come ha evidenziato nel 2028 la mostra SOSBrutalism al Deutsches Architekturmuseum di Francoforte.

Il Nuovo Brutalismo nacque in Inghilterra agli inizi degli anni cinquanta e il termine, anche se coniato dall’architetto svedese Hans Asplund, figlio di Gunnar, «apparteneva» ai coniugi Alison e Peter Smithson, tra i giovani architetti della generazione del dopoguerra tirocinanti nel London County Council, insofferenti allo snobismo misto all’irrigidita estetica marxista degli architetti più anziani.

Furono, infatti, le «azioni» degli Smithson quelle che diedero «qualità distintive al concetto di Brutalismo», che per loro significava «un’etica, non un’estetica», e un modo di prendere le distanze dall’ortodossia anglo-zdanoviana presente nell’organismo di governo della contea londinese. Queste «azioni» sono nell’ordine: la Scuola di Hunstanton (Norfolk, 1949-’54), la cui «inglesità» nell’uso delle strutture in acciaio e degli elementi prefabbricati in cemento la distingue dall’Illinois Institute of Tecnology di Chicago (1938-’58) di Mies van der Rohe), al quale spesso per superficialità la si accosta; i tre progetti mai realizzati della Cattedrale di Coventry (1951); il complesso residenziale di Golden Lane (1952); l’ampliamento dell’«anti-graziosa» Università di Sheffield (1953); infine la mostra Parallel of Life and Art allestita nel 1953 con il fotografo Nigel Henderson e lo scultore Eduardo Pestalozzi, dov’è messa in discussione «l’idea convenzionale di bellezza».

Quest’esposizione presentava una raccolta d’immagini «di violenza e distruzione, e visioni distorte o antiestetiche della natura umana», la cui radicalità, per alcuni «ripugnante», corrispondeva alla scelta degli Smithson di un’architettura a-formale, basata non sugli schemi aggregativi geometrici dell’alloggio, ma ad esempio sullo studio delle loro connessioni con una strada-ponte (street-deck) che trasformava lo spazio pubblico di interazione di tutti i residenti; di qui le sue multiformi ramificazioni alla scala urbana nella rete di percorsi pedonali sopraelevati del progetto urbanistico di Berlino-Hauptstadt (1958).

Gli Smithson rivedono in chiave sociale le invenzioni di Le Corbusier: dalla sua rue interior, cardine della concezione architettonica dell’Unité d’Habitation di Marsiglia (1947-’52), all’impiego del cemento armato a vista (beton brut), del quale ammirano la ruvida irregolarità, fino alla Ville radieuse (1930), visione urbanistica del futuro della città, ormai «svanita» dai Congrès Internationaux d’Architecture Moderne. È proprio nel difficile confronto generazionale con i maestri del Movimento Moderno presenti nel CIAM, e in particolare con l’architetto svizzero-francese che ne era la personalità egemone, il momento decisivo dell’affermazione della giovane corrente brutalista, insofferente alle tesi urbanistiche della città funzionalista, diffusamente declamate, ma rimaste irrealizzate.

Chiamato a elaborare un programma per il decimo congresso di Dubrovnik (1956), il gruppo che si raccolse attorno agli Smithson prese il nome di Team X. Vi aderirono stabilmente Jacob Bakema, Giancarlo De Carlo, Georges Candilis, Aldo van Eyck e Shadrach Woods, protagonisti, nel successivo congresso ad Otterlo nel 1959, nel determinare la chiusura del famoso organismo costituito nel Castello di La Sarraz nel 1928.

Nelle sue pagine Banham ricostruisce la dialettica tra i giovani critici del Team X e i più anziani architetti razionalisti, i cui risultati, fondati sui principi della Carta d’Atene (1933), cominciavano ad «apparire troppo schematici, formalistici e burocratici», al punto da dover essere rielaborati su una «base più umana e pragmatica» (Smithson). Che poi la nuova urbanistica immaginata dal Brutalismo in alternativa alla «colossale scacchiera» lecorbusieriana (Ville contemporaine, 1922; Plan Voisin per Parigi, 1925) implicasse a sua volta una serie di contraddizioni lo mostra l’idea dell’insediamento policentrico di un’edificazione compatta, complessa e a-formale corrispondente al concetto di Cluster. Alla fine degli anni cinquanta la corrente brutalista inglese risentì di una perdita d’idealismo e, come scrive Banham, «ciò che gli inglesi stavano facendo si era separato dal Brutalismo così come il mondo stava arrivando a capirlo».

Già ai suoi esordi, tuttavia, la parola «brutalista» non identifiicava veramente la semplicità e l’eleganza dei progetti degli Smithson, che rivolsero sempre le loro attenzioni «ai grandi produttori di forma», influenzati dagli studi di Rudolf Wittkower o Colin Rowe sull’attinenza tra l’architettura moderna e il passato classico.

È un dato evidente però che il Brutalismo si era affermato a livello planetario come una tendenza dell’architettura che, pur alla presenza di labili connotati formali, aveva trovato alimento non tanto nelle proposte teoretiche degli Smithson quanto nelle architetture di Le Corbusier come Les Maisons Jaoul a Neuilly-sur-Seine (1951-’55). Corbu indicò pragmaticamente lo «stile di lavoro» da seguire, che per primi James Stirling e James Gowan fecero proprio negli appartamenti londinesi di Ham Common (1959).

Banham spiega nelle pagine finali che se in Gran Bretagna il Brutalismo «da violenta fiammata rivoluzionaria» si trasformò in un «vernacolo di moda», all’estero produsse importanti risultati come l’Istituto Marchiondi, a Milano, di Vittoriano Viganò (1959), in attesa da troppo tempo di essere salvato dalla rovina, o la Siedlung Halen dell’Atelier 5 a Berna. Esempi che dimostrano che, pur in assenza di una «urgenza etica o estetica», c’è sempre la possibilità che spunti un’architettura autre, «libera da preconcetti e da pregiudizi».