A maggior ragione oggi, con la dicitura ‘deathcore’ tornata prepotentemente sulla bocca di tutti grazie all’esplosione commerciale di band come Lorna Shore e Slaughter to Prevail, la ricomparsa dei Despised Icon è di quelle in grado di rimettere le cose in prospettiva e ricordare al pubblico cosa significhi veramente suonare questo genere.
Assenti da ben sei anni dal mercato discografico (escludendo la compilation “Déterré” del 2022), si può dire infatti che Alex Erian e compagni abbiano tenuto fede alla loro nomea di band devastante con un disco, “Shadow Work”, in grado di condensare vecchi e nuovi spunti in un flusso altamente efficace e contagioso, attualizzandosi (vedasi alcuni passaggi ‘anneriti’) senza però snaturare un DNA che è e resta legato agli insegnamenti della vecchia scuola hardcore e death metal.
Musica aggressiva e profondamente dinamica, fatta per temprare tanto il corpo con i suoi riff e i suoi breakdown, quanto la mente grazie ai testi motivazionali di Erian, con il quale siamo riusciti a metterci in contatto su Teams un paio di settimane prima dell’uscita dell’album…
LE PRIME NOTIZIE SULLA LAVORAZIONE DI “SHADOW WORK” RISALGONO ORMAI A TRE ANNI FA, E CREDO CHE QUESTO LUNGO LASSO DI TEMPO SI RIFLETTA NEL CONTENUTO DELL’ALBUM. PROBABILMENTE, PARLIAMO DEL VOSTRO LAVORO PIÙ VARIO E CORAGGIOSO DI SEMPRE, SOPRATTUTTO PER COME AVETE DECISO DI SPINGERVI OLTRE LA VOSTRA COMFORT ZONE.
CON QUALE MENTALITÀ E CON QUALI OBIETTIVI VI SIETE APPROCCIATI A QUESTO DISCO?
– Ti ringrazio per averlo notato, perché era esattamente la nostra intenzione. Sai, questo è il nostro settimo album. Dopo ventitré anni di carriera, ci rendiamo conto che attorno ai Despised Icon esiste una componente nostalgica inevitabile… ma noi siamo concentrati sull’oggi e sul futuro.
Per questo considero “Shadow Work” il nostro lavoro più completo di sempre. In passato eravamo una touring band a tempo pieno: dischi ogni due o tre anni, scadenze fisse, l’obbligo di pubblicare entro una certa data per poter poi partire con il tour mondiale… Tutto era una corsa contro il tempo. Spesso entravamo in studio con metà album scritto e dovevamo completarlo durante le sessioni di registrazione.
Da quelle situazioni nasceva molta magia, certo, ma anche tanta volatilità e urgenza. Eppure, riascoltando i nostri vecchi lavori, mi sono spesso ritrovato a pensare: “questo riff poteva essere migliore, questa parte non funziona davvero”.
Con “Shadow Work” volevo liberarmi da quella sensazione. Abbiamo deciso di prenderci tutto il tempo necessario. Sei anni. Eric (Jarrin, chitarre, ndr) ed io abbiamo scritto insieme la musica, io ho curato tutti i testi. Ci siamo messi alla prova, come persone e come musicisti. Il risultato è, credo, un album coeso, ma anche un viaggio emozionale, lirico e musicale. Abbiamo cesellato ogni brano, scartato riff, migliorato arrangiamenti… e credo che tutto questo si senta. È un disco con molte sfumature, tante influenze diverse — alcune nuove, altre che rimandano al nostro passato — e ogni canzone ha una sua identità precisa.
DIREI CHE HA ANCHE UN’ATMOSFERA PIÙ CUPA DEL SOLITO, CON ATMOSFERE E SOLUZIONI AI LIMITI DEL BLACK METAL. È STATA UNA SCELTA CONSAPEVOLE O FRUTTO DI UN’EVOLUZIONE NATURALE?
– Direi naturale. La bellezza della musica — e di questa band — è proprio che non deve per forza essere pianificata. Ti apri, crei, e quello che viene fuori è semplicemente lo specchio del momento che stai vivendo.
Come ti dicevo, “Shadow Work” ha richiesto sei anni di scrittura e registrazione. Dentro c’è un arco più ampio di esperienze di vita e di influenze, e questo lo rende più vario. Per quanto riguarda le influenze black metal, sì, fanno parte del mix.
Siamo tutti ascoltatori onnivori: amiamo l’hardcore, il deathcore, il death metal… ma anche il black metal. Per Steve — il nostro altro cantante — il black metal è una delle influenze principali. Ha avuto una vita difficile, e questo tipo di musica lo aiuta, come aiuta anche me, a incanalare esperienze e sentimenti negativi in qualcosa di positivo.
Il black metal ha quella sincerità brutale, quella profondità emotiva che permette di trasformare il dolore in catarsi. Non siamo certo una band black metal, ma quell’energia oscura fa parte del DNA di “Shadow Work”. È, appunto, catartico.
PARLIAMO DELLA COPERTINA DI SHADOW WORK, ANCORA UNA VOLTA REALIZZATA DA ELIRAN KANTOR. L’IMMAGINE DEL PERSONAGGIO CHE SI STRAPPA LA MASCELLA E LA USA COME CORONA È DAVVERO POTENTE. DA DOVE NASCE?
– Eliran è un vero artista. Vive e respira la sua arte, e per lui ogni opera ha un significato profondo. Credo che la musica, per me, abbia lo stesso valore che l’arte visiva ha per lui. Lavorare con lui è naturale, ci capiamo al volo.
Avevamo già collaborato su “Purgatory”. All’epoca lo contattai all’ultimo minuto e lui mi disse: “È troppo tardi!”. Ma poi gli esposi il concept e mi rispose: “Ok, è una figata, lo faccio”. Stavolta ho imparato la lezione e l’ho contattato con largo anticipo per assicurarmi che fosse disponibile.
L’idea è nata a Berlino, nel backstage di un nostro concerto con i Decapitated nel 2022. Gli dissi che “Shadow Work” sarebbe stato un disco molto introspettivo e che volevo una copertina che lo rappresentasse. Gli proposi due idee: qualcuno che si apre mostrando il proprio interno, o qualcuno con una corona di spine.
E lui mi rispose: “Perché non uniamo le due cose?”. Così è nata la figura che si strappa la mascella per incoronarsi con essa: una sorta di ‘corona del dolore’. Ho subito pensato: “è geniale”. In pochi minuti avevamo definito tutto. A volte l’arte nasce così, d’istinto.
DAL PUNTO DI VISTA LIRICO, ESISTE UN FILO CONDUTTORE CHE LEGA I BRANI DEL DISCO?
– Assolutamente sì. “Shadow Work” è un disco profondamente introspettivo. I Despised Icon non sono mai stati una band politica o religiosa; per noi la musica è uno strumento di sfogo personale.
Io e Steve scriviamo per liberare le nostre frustrazioni, per parlare degli ostacoli che incontriamo e per trasformare le esperienze negative in qualcosa di costruttivo.
Nei miei testi passati raccontavo molto i momenti bui. Con “Shadow Work” invece cerco di reagire, di attuare un cambiamento reale: migliorarmi fisicamente, mentalmente, anche a livello economico. Non ci sono ancora riuscito del tutto, ma fa parte del percorso — e questo disco è parte del processo.
Oggi sento di più il peso della mortalità. Sto per compiere quarantacinque anni, non ho più quella sensazione d’invincibilità che avevo a vent’anni. Ho perso amici, familiari, persone care. Voglio dare valore a ciò che resta davanti a me, e “Shadow Work” rappresenta proprio questo.
NEGLI ANNI LA FORMAZIONE DEI DESPISED ICON È RIMASTA MOLTO STABILE, COSA RARA PER UNA BAND CON UNA CARRIERA COSÌ LUNGA. QUANTO CONTA L’EQUILIBRIO UMANO PER LA SOPRAVVIVENZA DI UN GRUPPO?
– È la cosa più importante, senza dubbio. Eric — con cui gestisco la band — lo conosco da quando avevo diciassette anni. Abbiamo fondato i Despised Icon nell’estate del 2000 e ci siamo presi il nostro tempo per costruire la formazione giusta.
Prima ancora di suonare dal vivo, abbiamo passato un anno e mezzo insieme a scrivere e cementare il legame umano. Ed è questo che ci ha permesso di durare.
Sai, nel 2010 ci siamo sciolti proprio perché sentivamo di non poter andare avanti senza quella formazione, senza quel nucleo. Alcuni avevano avuto figli, altri nuovi lavori, e continuare con musicisti diversi sarebbe sembrato come suonare in una cover band dei Despised Icon. Quindi abbiamo chiuso, convinti che fosse definitivo.
Poi, dopo qualche anno, la distanza ha riacceso il desiderio di suonare insieme: così, nel 2014 abbiamo fatto qualche show di reunion, nel 2016 abbiamo firmato con Nuclear Blast e pubblicato “Beast”.
E ora eccoci qui, quasi dieci anni dopo, con il nostro settimo album e ancora la stessa squadra. Siamo come una famiglia. Se uno di noi non può esserci, non suoniamo. Preferiamo fare pochi concerti, venti all’anno, piuttosto che snaturarci. Non cerchiamo di diventare più grandi o più famosi.
Ci basta essere qui, far parte della comunità metal, restare creativi. Alla fine, l’unica cosa che conta è l’amore per la musica. È quello che tiene vivo tutto.
È CURIOSO PENSARE CHE IL PERIODO DELLA REUNION HA ORMAI SUPERATO QUELLO DELLA PRIMA FASE DELLA BAND…
– È vero! Anche se bisogna dire che in mezzo c’è stato il Covid, che ci ha tenuti fermi per più di due anni. Oggi facciamo molti meno concerti rispetto ai tempi d’oro, ma paradossalmente questo li rende più speciali. La gente sa che, se veniamo nella loro città, potrebbe passare molto tempo prima di rivederci — e allora partecipa con un’intensità diversa.
È qualcosa di magico. Nessuno ci deve niente, eppure, dopo vent’anni, c’è ancora chi ci sostiene o chi ci scopre per la prima volta. È bellissimo.
COME PERCEPISCI LA SCENA DEATHCORE CONTEMPORANEA RISPETTO A QUELLA DEI PRIMI ANNI DUEMILA? PERSONALMENTE, MI SEMBRA CHE MOLTE BAND OGGI ABBIANO UN PO’ PERSO DI VISTA IL SIGNIFICATO STESSO DEL GENERE, OSSIA VERO DEATH METAL E VERO HARDCORE FUSI INSIEME. VOGLIO DIRE, SE PENSO AI DESPISED ICON, MI VENGONO IN MENTE SUFFOCATION E HATEBREED…
– Ti ringrazio! Sì, diciamo Suffocation con un tocco Hatebreed, oppure Dying Fetus e Biohazard. O anche Cryptopsy, una delle nostre principali influenze, magari con un pizzico di Dillinger Escape Plan.
Noi siamo sempre stati così: una fusione tra death metal e hardcore, e tale resteremo. Aggiungiamo nuovi elementi per mantenerci ispirati, ma l’essenza è quella.
Riguardo alla nuova generazione, le cose sono cambiate — ma il cambiamento è positivo. La musica non ha regole. Certo, molti gruppi suonano simili tra loro, ma fa parte del gioco: un blast-beat sarà sempre un blast-beat, un breakdown sarà sempre un breakdown.
Ciò che conta è l’evoluzione. E oggi c’è un’enorme quantità di talento. Voglio citare Shadow of Intent, che hanno appena pubblicato un disco fantastico; Signs of the Swarm, Peeling Flesh, Crown Magnetar, Bodysnatcher… Tutti gruppi che stanno portando questa scena a un nuovo livello.
E poi oggi è tutto a portata di click. Negli anni ’90 dovevo fare un’ora di macchina per arrivare al negozio di dischi e scegliere un CD solo guardando la copertina. Ora basta un click. È un mondo diverso, ma affascinante.
PARLANDO DI BAND GIOVANI E VALIDE, CONOSCI I JUSTICE FOR THE DAMNED DALL’AUSTRALIA?
– Certo! Grandissimo gruppo. Se qualcuno che ci legge non li conosce, deve assolutamente recuperarli.
Mi ispirano molto anche sul piano visivo. Oltre a scrivere e gestire la band, mi occupo di tutta la direzione artistica: copertine, merch, video. E apprezzo tantissimo la loro estetica, è potente e autentica.
Nonostante i miei quarant’anni, guardo con curiosità alla nuova generazione: mi tiene connesso con il presente.
FIN DA GIOVANISSIMI AVETE AFFRONTATO TEMI MOLTO MATURI, COME LA GUARIGIONE E IL CONFLITTO INTERIORE. COSA SIGNIFICA PER TE OGGI, SUPERATI I QUARANT’ANNI, ‘GUARIRE’?
– Mi considero un introverso. Non sono timido, ma passo molto tempo da solo, e spesso resto intrappolato nei miei pensieri. La musica è ciò che mi permette di liberarmi, di guarire. È la mia terapia. Ecco perché avrà sempre un posto centrale nella mia vita. È una funzione terapeutica… Sì, è esattamente questo.