I cinesi si considerano eredi di una civiltà con tre millenni di storia. Tra Cina e Giappone ci sono quasi duemila anni di relazioni. Xi Jinping vede il mondo in chiave di competizione non solo fra sistemi-paese, ma fra modelli di civiltà. Altri leader asiatici inquadrano gli eventi contemporanei nei tempi lunghi della storia. 

Al termine della tournée di Donald Trump in Estremo Oriente e Sud-est asiatico, per misurarne le conseguenze bisogna mettersi nei panni dei leader che ha incontrato. Sanno che i presidenti americani passano. Devono prendere decisioni oggi che valgano tra quattro o dieci anni, che corrispondano agli interessi strategici dei loro paesi su orizzonti prolungati. Una rassegna delle capitali che Trump ha visitato dà un’idea di come cambiano gli equilibri in Asia, il continente dove si concentra una quota enorme di popolazione umana, ricchezza, dinamismo innovativo.



















































Il Giappone è dal 1945 l’alleato americano più importante in quell’area. Trump ha incontrato una premier di fresca nomina, Sanae Takaichi, la prima donna a guidare un governo a Tokyo. Una «Giorgia Meloni nipponica» che ha stabilito un’intesa con The Donald: conservatrice, fedele ai valori tradizionali del suo paese, nazionalista. Takaichi è un falco di politica estera, vuole contenere l’espansionismo cinese, è preoccupata dal riarmo di Pechino. Reagisce all’uragano-Trump in modo simile al cancelliere tedesco Friedrich Merz: decide aumenti di spesa militare, per farsi carico di maggiori responsabilità nella difesa. Il Giappone fu anche la prima «cavia» del ricatto cinese sulle forniture di terre rare – indispensabili per i magneti industriali e molte tecnologie – poiché lo subì quindici anni fa. Ha stretto un’alleanza con l’Australia, gigante minerario, per emanciparsi dalla Cina.

La Corea del Sud, altro alleato storico di Washington che deve la sua sopravvivenza al sacrificio dei soldati americani nel 1950-53, ha annunciato che investirà nella ricostruzione di un’industria cantieristica americana, oggi ridotta ai minimi termini e soverchiata dal dominio cinese nella marina mercantile. In cambio Seul otterrà dagli Usa i suoi primi sottomarini nucleari.

Tutti insieme i paesi amici dell’America – bisogna aggiungere nell’area del Pacifico Filippine Indonesia Vietnam Australia – accolgono con sollievo la tregua fra Trump e Xi che placa temporaneamente le tensioni commerciali. Considerano vantaggioso il fatto che la Cina è colpita comunque da dazi medi del 47%, cioè più del triplo rispetto ai dazi che colpiscono Giappone e Corea del Sud (15% come per l’Unione europea), e superiori anche al trattamento di Vietnam e Filippine. Scampato pericolo: non c’è stato un accordo fra le due superpotenze a danno di tutti gli altri. Nessuno si illude che la tregua diventi una pace duratura. Non si torna indietro all’età dell’oro della globalizzazione «ingenua», quando l’America concesse alla Cina di diventare la fabbrica del pianeta monopolizzando interi settori industriali, poi chiuse un occhio sul saccheggio di know how con cui Pechino iniziò a scalare le tecnologie più avanzate. Il divorzio tra America e Cina è entrato in una fase meno tempestosa ma continuerà. Un segnale emblematico: Microsoft procede nello smantellamento della sua presenza in Cina. Lo fanno tante altre multinazionali occidentali, ma la Microsoft ha una valenza simbolica speciale. Il fondatore Bill Gates era stato alla fine del millennio un profeta dell’ottimismo globale, con la sua celebre previsione: «Internet porterà la democrazia a Pechino». Quel capitolo di storia ormai è chiuso.
Estremo Oriente e Sud-Est asiatico si preparano a vivere in un mondo meno integrato, dove il protezionismo e l’autarchia cinese sono diventati contagiosi. La crisi delle terre rare ha esibito la formidabile potenza di Xi, però il risultato inevitabile è la ricerca da parte di tutti gli altri di fonti alternative. Così come, sul fronte opposto, le restrizioni di Trump all’export di certe tecnologie avanzate a Pechino, accelerano la corsa cinese per farsele tutte in casa.

Nello scenario geopolitico e strategico-militare, i paesi asiatici della sfera filoamericana prendono atto che Trump non ha «svenduto» Taiwan a Xi: dai resoconti del loro colloquio non risulta che sia stato trattato il destino dell’isola. I pessimisti temevano che Xi riuscisse a estorcere al presidente Usa un segnale di disimpegno, per dare via libera all’annessione forzata che è nei piani di Pechino. Ma anche per lo scenario di una futura difesa di Taiwan, giapponesi e sudcoreani si avvicinano tra loro e si preparano ad assumersi maggiori responsabilità, unendo i loro sforzi all’Australia. Trump passerà, l’America resterà sempre una potenza del Pacifico; ma i leader di quest’area non s’illudono che i contribuenti americani vogliano continuare a sopportare gli stessi oneri militari su scala planetaria come negli ultimi 80 anni. Chi non vuole finire risucchiato nell’orbita cinese, ne trae le conseguenze. 

Uno studio del think tank Rand analizza le crisi degli anni Sessanta e Settanta nei rapporti fra gli Stati Uniti e le nazioni alleate (ce ne furono di gravi, sotto le presidenze Nixon e Carter), provocate da fasi di disimpegno e arroccamento americano. Le reazioni di adattamento non portarono nessun alleato a «cambiare campo», passando nella sfera d’influenza dell’avversario. L’antipatia che Trump può suscitare, nelle opinioni pubbliche di alcuni paesi asiatici o nei loro ambienti industriali, non cancella la vecchia legge della geopolitica: è prudente allearsi con il bullo più lontano, per premunirsi contro il bullo che ti sta addosso.

2 novembre 2025