Intervistato dai media vaticani, il presidente della Conferenza Episcopale argentina descrive l’impegno della comunità ecclesiale in quest’ultimo anno: “Abbiamo lavorato intensamente per approfondire l’identità missionaria per rafforzarne le strutture e i servizi”. Il documento finale del Sinodo sulla sinodalità una spinta a servire i più poveri e vulnerabili e a “testimoniare il Vangelo là dove la dignità umana è minacciata”

Silvina Pérez – Città del Vaticano

A un anno dalla sua nomina a presidente della Conferenza Episcopale argentina (CEA), l’arcivescovo Marcelo Colombo dialoga con i media vaticani in un momento cruciale per la Chiesa del Paese. La scomparsa di Papa Francesco – primo Pontefice argentino e latinoamericano – ha lasciato un’impronta indelebile; ora il nuovo Papa Leone XIV invita la Chiesa universale a una stagione di ascolto, missione e servizio rinnovato. Con uno sguardo pastorale e una lunga esperienza al servizio del popolo di Dio, monsignor Colombo riflette sui grandi temi del presente: la speranza in tempi di guerra, la formazione dei sacerdoti, la polarizzazione sociale e i nuovi orizzonti della Chiesa argentina.

A un anno dalla sua elezione a presidente della Conferenza Episcopale argentina, come descriverebbe oggi il profilo della Chiesa del Paese dopo il pontificato di Francesco?

Nel corso di quest’anno abbiamo lavorato intensamente per approfondire l’identità missionaria della Chiesa e rafforzarne le strutture e i servizi. Ci anima lo spirito del Sinodo sulla sinodalità, in particolare il documento finale, che ci spinge a essere una Chiesa servitrice dei più poveri e vulnerabili, sempre pronta a testimoniare il Vangelo là dove la dignità umana è minacciata.

Lei ha recentemente incontrato Papa Leone XIV. Com’è andato l’incontro? E cosa pensa dei confronti che la stampa fa tra lui e i suoi predecessori, Francesco, Benedetto XVI o Giovanni Paolo II?

È stato un incontro molto cordiale e all’insegna della vicinanza, un vero momento di scambio sulla vita della Chiesa in Argentina. Ho potuto raccontargli la nostra realtà e trasmettergli il saluto dei vescovi del Paese. Ogni Papa ha la sua personalità e il proprio modo di rispondere ai contesti in cui esercita la sua missione. In Leone XIV mi colpisce la profonda esperienza missionaria che gli ha aperto il cuore a culture diverse e lo ha spinto ad annunciare Cristo a tutti. La sua esperienza come superiore generale degli agostiniani gli ha donato, inoltre, uno sguardo universale e una grande sensibilità nel servire, attraverso il ministero di governo, fratelli di provenienze differenti.

In un contesto globale segnato dalla violenza e da un numero record di guerre, il Giubileo della Speranza non rischia di apparire come un gesto ingenuamente ottimistico?

Sarebbe un ottimismo ingenuo se si trattasse di guardare la realtà dall’esterno, senza impegnarsi. Ma il Giubileo ci invita esattamente al contrario: a porre segni concreti di speranza in un mondo frammentato, violento e disumanizzato. La Chiesa, esperta in umanità, non ha paura di farlo, perché è presente nei popoli, nelle loro gioie e nelle loro ferite. Non si tratta di ottimismo vuoto, ma di una fede che agisce.

Il Papa ha chiesto che l’educazione cattolica e l’università siano luoghi di incontro e dialogo. Come si può affrontare, da lì, la polarizzazione che domina il nostro tempo?

L’università è uno spazio privilegiato per il dialogo. Gli studenti e i giovani docenti possono essere protagonisti degli scambi e delle sfide che la realtà propone, valorizzando anche l’esperienza dei più anziani. Si tratta di creare luoghi dove discutere apertamente di tutto, senza escludere nessuno. Nel mondo cattolico, i giovani universitari non devono temere di esprimersi con libertà e convinzione: abbiamo una dottrina sociale ricchissima, capace di comprendere e trasformare la realtà alla luce del Vangelo. Un bellissimo esempio è la Rete delle Università per la cura della casa comune, nata in Argentina dopo la Laudato si’ e poi diffusa in tutta l’America Latina, dove università statali, private e confessionali dialogano insieme su temi sociali e ambientali.

Come sta rispondendo la Chiesa argentina al calo delle vocazioni e alla riorganizzazione dei seminari?

La priorità è la formazione dei formatori. Questa, arricchita dalle prospettive del Sinodo, aiuta vescovi e formatori a garantire che i seminari siano veri spazi di discernimento e di comunione. Non si tratta soltanto di numeri – importanti, ma non decisivi -, bensì di formare pastori secondo il cuore di Cristo, profondamente impegnati nella vita del loro popolo e nel servizio del Vangelo.

Quando attraverso la stampa si parla di correnti conservatrici, liberali o progressiste all’interno della Chiesa, come interpreta queste categorie?

Sono categorie prese in prestito dalla sociologia politica, spesso incapaci di esprimere la profondità del compito evangelizzatore. Nella Chiesa, ciò che conta è la fedeltà al Vangelo, la comunione con il Papa e i vescovi e la difesa della vita dal concepimento fino alla morte naturale, passando per ogni tappa e situazione di fragilità delle persone e dei gruppi sociali. Tutto il resto è secondario.

Quali sono, a suo avviso, le principali sfide della Chiesa argentina in questo triennio?

Tre parole riassumono il nostro piano pastorale: missione, sinodalità e regioni. La Chiesa esiste per evangelizzare, e questo deve permeare ogni servizio e struttura. La sinodalità non è una semplice convocazione occasionale, ma uno stile di vita ecclesiale, un cammino condiviso con i fedeli, che si concretizza nei consigli diocesani e parrocchiali e nei gruppi di animazione pastorale. È anche una profezia sociale, in un mondo polarizzato che tende a uniformare e a zittire le differenze. La Chiesa argentina è presente in otto regioni pastorali, ognuna con la propria identità e storia evangelizzatrice, favorirne il dialogo e la collaborazione è fondamentale per mantenere viva la comunione e valorizzare le ricchezze di ciascuna.

Quale messaggio desidera lasciare ai fedeli in questo tempo di transizione?

Di non perdere la speranza. La Chiesa argentina, con la sua storia di vicinanza e di impegno, vuole continuare a essere testimone del Vangelo in mezzo al popolo. Là dove ci sono dolore, esclusione o disperazione, la nostra parola e i nostri gesti devono essere segni della tenerezza di Dio.