THE BLACK DAHLIA MURDER – Miasma
Luca Venturini: Dopo un buon esordio, anche se ancora pesantemente influenzato dagli At The Gates e dalla scena melodica svedese, i The Black Dahlia Murder iniziarono a trovare il loro stile con Miasma, che è il loro secondo album. Il disco ha ancora un piglio vagamente underground, non tanto per la tecnica strumentale dei singoli musicisti che è già a un buon livello, quanto per un modo di comporre e arrangiare che spesso dà la sensazione di sentire una band in ansia da prestazione. Alcuni pezzi avrebbero avuto bisogno di essere un po’ più ariosi e meno nevrotici; invece cercano di arrivare il prima possibile al ritornello, poi all’assolo e a chiudere. Al contempo, però, questa sensazione underground è lo stesso motivo per il quale Miasma è un buon disco. Suona davvero molto sincero e viscerale, e la sua capacità di farsi apprezzare fin dal primo ascolto è notevole. Con questo lavoro la band dimostrò un’evoluzione enorme rispetto al disco precedente. La progressione artistica sarà tale che il successivo Nocturnal diventerà il loro capolavoro e, per quanto mi riguarda, uno dei capolavori del death metal mondiale.
MORRIGAN – Headcult
Michele Romani: Piccola premessa: se non amate i gruppi-clone potete tranquillamente saltare questa recensione e passare alla prossima, in quanto i Morrigan sono una copia spudorata dei Bathory del periodo epic-viking metal, e questo Headcult rimane ancora oggi, per quanto mi riguarda, il loro disco meglio riuscito. In realtà sarebbe corretto parlare di one man band più che di gruppo, visto che di strumenti, liriche e voce si è da sempre occupato solo Beliar; addirittura, quando lo vidi suonare live una ventina di anni fa, sul palco c’erano solo lui e una drum machine, e fu un concerto comunque della madonna. Come si diceva prima, il disco si rifà in tutto e per tutto alla gesta di Quorthon e in particolare a quel capolavoro di Twilight of the Gods, ma nonostante questo scorre che è una meraviglia e soprattutto i pezzi sono quasi tutti di altissimo livello, su tutti Where Rainbows End, Bloody Blue Faces e Talisain, che emanano un’epicità fuori dal normale. Se vi piacciono i Bathory del periodo epico questo è un disco che non potete non avere nella vostra collezione.
TRUCKFIGHTERS – Gravity X
Stefano Greco: I Truckfighters sono la classica banda stoner semi-clone di quelle che giravano circa un decennio prima. Seguono tutti gli stereotipi del genere, tra riffoni, copertine spaziali e canzoni che parlano di macchine, benzina e sigarette. La loro particolarità maggiore è di avere scritto una vera e propria quasi-hit in un genere che non sforna hit. Desert Cruiser, che apre il loro album di esordio (già uno split era uscito l’anno prima) è un brano da svariati milioni di ascolti e che trovate su pressoché qualsiasi playlist di genere deser/stoner/psych al pari (o quasi) di Green Machine, Space Lord o Evil Eye. Il motivo della popolarità del pezzo è ignota, io credevo fosse a causa della presenza su qualche videogioco o film, ma non sembra sia così. E il solo fatto che sia un gran pezzo non è una spiegazione sufficiente, purtroppo. Comunque, fatta eccezione per questo brano-manifesto, è tutto Gravity X ad essere ottimo se non di più, in piena continuità con tutto il rock and roll passatista che la loro madrepatria Svezia all’epoca tirava fuori senza sosta. Ottimi e abbondanti.
VERDUNKELN – st
Griffar: Molto spesso una delle critiche più forti riguardo al black metal nasce dalla convinzione che il genere non sia in grado di offrire alcunché di innovativo, originale o personale. Da parte mia è un’ovvietà scrivere che non sono affatto d’accordo con questa visione pressapochistica, sebbene io non possa concretamente fare nulla per cambiarla; posso segnalare gruppi e dischi che la smentiscono, ma, se poi ciò rimane una voce nel nulla, l’unica cosa che mi rimane è dire “non sapete cosa vi perdete”. Questo ci porta all’argomento Verdunkeln, progetto solitario di Gnarl (lui pure negli altrettanto validi Graupel, side-project di Zingultus degli Endstille). L’omonimo esordio del 2005 propone un black metal diverso, straniante, di fatto mai udito prima. Non deflagrante in termini di velocità, nemmeno sinfonico come siamo abituati ad intenderlo; atmosferico, quello sì, ma anche in questo caso non come ci si aspetterebbe secondo i canoni. I brani sono cupi, spesso lugubri, per via delle chitarre che godono di una distorsione strana e compressa che fa passare in secondo piano il fatto che i riff siano essenziali oltre che ripetitivi ben oltre l’ipnotismo. Quello che però risalta è l’utilizzo diffuso di chitarre non distorte, liquide, non distanti dal psichedelico. La sintesi di questi elementi è la lunga (9 minuti) Einst war es mal che spicca come un vessillo sopra gli altri pezzi. Ossessivo, angosciante, ipnotico, il brano da solo vale più di mille analisi, basta ascoltarlo per comprenderne l’originalità. Il gruppo ebbe un seguito prevalentemente di nicchia, vista la non semplice impostazione musicale, e ha pubblicato altri due dischi evolvendo il proprio suono senza tuttavia essere gratificato della popolarità che avrebbe meritato. Originali anche oggi, se cercate black metal meno schematico, i Verdunkeln sono stati dei precursori dell’avantgarde black metal. Non pubblicano nulla da più di dieci anni, è probabile che non siano più attivi.
WYRD – Rota
Michele Romani: Della creatura di Narqath abbiamo già parlato diffusamente qui a Metal Skunk addirittura con una recensione a sei mani a proposito di quel capolavoro assurdo di Heathen, un unicum della discografia di Wyrd anche perché composto da un solo pezzo di oltre 50 minuti. Pur non essendo al livello del debutto, gli album successivi si sono comunque difesi bene, incluso questo Rota che cambia in parte le carte in tavola nel suono della band finlandese. Il disco infatti è più immediato rispetto ai predecessori, la componente folk è nettamente più accentuata rispetto a quella doom e i brani sono dal minutaggio più corto, esclusa l’iniziale Noitakansa di quasi 15 minuti, che non a caso è quella più legata allo stile degli esordi. Una nota in particolare fatemela dedicare a Henkien Yössä, brano con cui i tempi andai completamente in fissa tanto da ascoltarla sempre a ripetizione. Una delle più belle cose mai scritte da Narqath, che purtroppo coi dischi successivi non riuscirà a restare su questi livelli.
WITCHCRAFT – Firewood
Stefano Greco: Le lodi sperticate spese poco più di un anno fa in occasione del ventennale dell’esordio potrebbero essere ripetute senza particolari variazioni anche per questo secondo capitolo. Uno stato di grazia assoluta che si sarebbe esteso anche al successivo The Alchemist e ed alcune delle uscite correlate del periodo (dall’Ep solista di Magnus Pelander ai vari progetti paralleli). La materia è sempre la stessa: superdoom dal passato remoto il cui il riferimento più ovvio è proprio la band che poi viene omaggiata in maniera esplicita. Mi riferisco alla traccia nascosta dove ad un certo punto emerge dal silenzio When The Scream Comes dei Pentagram. Tributo doveroso ad un gruppo immenso che arriva ben prima dei tempi odierni in cui un pioniere e superstite a qualsiasi cosa come Bobby Liebing si ritrova a godere di un pizzico di notorietà grazie ad un meme con la sua faccia che gira su internet. Lasciamo stare. Per il resto Firewood è una collezione di brani più veri degli originali di riferimento, una qualità tale (Wooden Cross!) da far pensare che non avrebbero mai e poi mai potuto sbagliare un album, di qui un po’ anche la delusione per le prove più recenti. Qui però stiamo parlando del meglio possibile.
AVERSE SEFIRA – Tetragrammatical Astygmata
Griffar: Dopo due più che onorevoli album usciti intorno all’anno 2000, nel 2005 gli americani Averse Sefira tornarono con Tetragrammatical Astygmata, lavoro complesso di black metal tiratissimo anche se difficilmente inquadrabile nella tradizione ortodossa. Un approccio minimale sembra caratterizzare ogni brano, ma se si ascolta il disco la sufficiente quantità di volte ci si accorge che la realtà è molto più complessa. L’intera opera è dissonante come insegnato dal religious black venuto alla luce in quel periodo, con trame di chitarra sovrapposte che creano un unico problematico muro sonoro di impressionante potenza. Qualcosa fatta in seguito da gruppi come i Nightbringer, ad esempio. Il lavoro alla batteria di The Carcass è strabiliante, impressiona per tecnica e varietà di soluzioni e sottolinea ogni riff in un amalgama che rasenta la perfezione. Non sorprende dunque che il disco sia decisamente atmosferico, ma non inteso come se imitasse gli Emperor o cose simili: è un tipo di atmosfera diversa, caotica, obliqua e carica di strane melodie poco immediate quanto affascinanti, tanto velenose da fare appassire pure i fiori di plastica. Gratificato da una produzione che ricorda i migliori Dark Funeral, il disco è un’oscura gemma da scoprire se si vuole ascoltare black metal tritaossa concepito in modo personale. Poco apprezzati in patria (li schernivano storpiandone il nome in Average Sefira, come se la loro musica fosse banale e mediocre) e altrettanto scarsamente considerati all’estero, gli Averse Sefira torneranno tre anni più tardi con un altro disco eccellente che replica l’impostazione di Tetragrammatical Astygmata, ma sono rimasti un gruppo sottovalutato e, dato il ridotto interesse nei loro confronti, si sono sciolti nel 2012.
MARTYRDÖD – In Extremis
Luca Venturini: I Martyrdöd sono una formidabile band svedese partita con uno stile crust punk classico ma ben fatto, e che in seguito si è ibridata sempre di più con atmosfere e melodie molto cupe che spesso vengono definite black metal, ma personalmente non ne sono convinto. Talvolta li ho visti definire “blackened crust punk”, per dire. Io ci sento elementi più riconducibili alla dark wave. Ad ogni modo, In Extremis è il secondo disco del gruppo, ha una produzione impeccabile e composizioni nettamente più mature rispetto all’esordio. Il fatto di unire anche qualche vago elemento dark (o black metal, se preferite) rende le loro canzoni più cupe, appunto, ma anche più melodiche, rispetto a quelle di altre band che suonano lo stesso genere. I Martyrdöd ci mettono del loro per distinguersi, sperimentando con l’ibridazione tra generi e mantenendo una certa orecchiabilità senza mai perdere in violenza sonora. I testi, in svedese, affrontano temi di natura esistenziale e sono, come da tradizione, politicamente impegnati. All’epoca della sua uscita In Extremis fece la fortuna dei Martyrdöd, lanciandoli, come disse Ciccio in occasione della loro apparizione al Netherland Deathfest, nell’olimpo del genere, e le vette di questo disco non sono più state raggiunte, anche se, a conti fatti, non hanno mai sbagliato un album.
VARGSANG – Thrones of the Forgotten
Griffar: Già celebrati in occasione del compleanno del loro debutto Call of the Nightwolves, nel 2005 pubblicano il secondo album i Vargsang, cioè il gruppo solista del personaggio che con lo stesso nick ha fondato i Graven dopo l’esperienza nei Nocti Vagus, oltre ad aver suonato anche in diverse altre band. Thrones of the Forgotten riprende il discorso terminato un paio d’anni prima, solo i brani sono appena più rifiniti, più studiati e meno propensi a sventolare solo ed unicamente il fregio dei DarkThrone. I riff sono sempre impostati in puro stile norvegese grim & frostbitten, ma c’è un po’ più di melodia e i pezzi sono meno schematici. Questo giova al lavoro che nel suo complesso suona più vario e persino più coinvolgente del suo predecessore, che come scopo primario aveva quello di picchiare duro e stagliarsi come un nuovo nerissimo monolito all’orizzonte delle terre desolate del raw black metal e poco altro. Gli otto pezzi effettivi sono tutti lunghi circa 5 minuti, e questa volta non vengono evitate partiture più cadenzate dall’impatto robusto che si intervallano ai classici up-tempo fast black di tipica matrice darkthroniana; sicché i 45 minuti abbondanti del disco scorrono via piacevolmente e si gradisce anche un ascolto reiterato, come accadeva per i vecchi classici della scuola norvegese che giravano nello stereo anche tutto il giorno. Probabilmente pure migliore del debutto, con la qualità dei brani che oscura l’unico limite del progetto – se di limite si può parlare – cioè che l’originalità non è il suo forte. Glielo si può perdonare, visto il livello dei pezzi. Già che ci siete recuperate anche i due album successivi, l’ultimo dei quali (In the Mist of Night) uscito nel 2014 è ad oggi anche il loro più recente.