Tra i numerosi meriti di Quodlibet, rientra senz’altro il piano di ripubblicazione dell’opera di Giani Stuparich, scrittore obliato della nostra letteratura primonovecentesca. E d’altra parte  in tempi di comunque non maggiore esposizione, il grande linguista Pier Vincenzo Mengaldo aveva giudicato il suo racconto, Un anno di scuola, felicissima novella in origine contenuta in una raccolta e poi valorizzata da Einaudi in un agile volumetto praticamente a sé (assieme con gli elegiaci Ricordi istriani) “un piccolo capolavoro”. La vicenda ha inizio giusto negli ultimi giorni d’estate quando la lieta brigata di un liceo maschile dell’impero asburgico si dà palpitante convegno, perfino rinunciando agli ultimi bagni, per spiare l’esito dell’esame d’accesso alla loro classe di Edda Marty, “prima donna che tentava la conquista d’un posto in quel ginnasio”. Oltre l’uscio, mentre la ragazza lotta col latino, i futuri compagni macerano sospirosi ruminando nei dubbi: “Sarebbe passata? Sarebbe stata loro compagna di classe? Quei giovani avevan sentito cose mirabili della sua intelligenza”. All’uscita, intanto, l’impatto è unanime: “Nessuno sapeva spiegarsi cosa avesse visto nei due grandi occhi  […] che avevano acceso il sangue un po’ a tutti”. Fra gli aspetti più mirabili di questo racconto davvero aureo c’è lo stile assai ambivalente con cui è scritto. Da un canto Stuparich filtra una prosa affabile che riesce a descrivere con rinnovata gaiezza i gesti di un’età senza eguali. Il lessico, poi, risulta irresistibile perché d’antan (“monellerie”, “frizzi”, “sorsellinando”  “abbaruffarsi” detto della sorella maggiore di Edda nei rapporti erotici coi maschi) secondo schietta volontà dell’autore che scelse di retrodatarne l’ambientazione al 1909 e di anticarne la lingua – il testo uscì invece nel 1929. Ed è a tutta prima comico lo spaesamento ingenerato dalla ragazza che con la sua voce incrina e poi scaravolta l’armonico equilibrio d’un coro di soli maschi – la classe “prova e riprova non s’accordava mai […] c’era in tutti una grande volontà d’indifferenza e di disinvoltura, ma nei fatti l’imbarazzo era evidente […] ognuno penava a riconoscere nell’altro l’antico compagno”. Al polo opposto di questa levità stanno gli effetti squassanti che la sua presenza ha sui compagni i quali reagiscono con impeti decadenti o decisamente ottocenteschi. Tanto più, dunque, attendiamo curiosi l’adattamento del racconto della regista Laura Samani che verrà presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, e in particolare per la scelta di postdatarne la storia ai giorni nostri. Come ha scritto Montale, che di Stuparich favorì l’esordio, Un anno di scuola è anche il racconto di una cristallizzazione. Alla stessa metafora, seppure anni addietro, era ricorso Stendhal che nel suo trattato sull’amore paragonava le fantasticazioni tipiche dell’amante alle gemme che concrescono su un bastoncino immerso in un lago di sale. Ogni compagno di classe in effetti si innamora di Edda ma ciascuno, come ha rilevato Claudio Magris, lo fa a modo suo, col l’idioletto proprio, fisso a tempestarla con le sue personalissime cristallizzazoni. C’è chi si scherma dietro il “lei” nonostante la frequentazione quotidiana; chi le stampa contro palle di neve per malcelato interesse, chi, come Turez, da ilare assume “un grugno malinconico” o chi, come il timido Mitis, al suo cospetto è illuminato da fuochi d’artificio scoppiettanti di battute e doppisensi.