C’è stato un momento, durante l’ultimo Tour de France, in cui il trionfo ha perso il suo sapore di invincibilità. Non perché Tadej Pogacar abbia ceduto un secondo in classifica, né per un calo di prestazioni o una strategia di corsa sbagliata. No. Quel momento è arrivato in una conferenza stampa, quando il campione sloveno ha pronunciato parole che nessuno si aspettava: “Più invecchio, più il bambino che è in me scompare e più la pressione diventa surreale. Comincio a pensare che non farò questo per tutta la vita”.

E poi: “Non credo che smetterò subito, ma non mi vedo nemmeno continuare per troppo tempo. Le Olimpiadi di Los Angeles sono uno dei miei obiettivi, che sono tra tre anni. Dopo di che, potrei iniziare a pensare al ritiro… vedremo

In un mondo dello sport dove ogni debolezza è un rischio di immagine, Pogacar ha mostrato il lato che raramente vediamo: il volto stanco del dominatore. E lo ha fatto senza difese, senza maschere. Come se volesse gridare — in quel tono pacato che più assomiglia a una resa — che anche i re hanno bisogno di riposare. Che anche chi pedala da Dio ha bisogno di sentirsi umano.

Il paradosso dell’eccellenza

Viviamo in un’epoca in cui l’eccellenza sportiva è misurata non solo in successi, ma in continuità assoluta. Il campione non è più chi vince, ma chi non smette mai di vincere. I margini di errore si sono ristretti, e con essi anche quelli dell’anima. Pogacar, Vingegaard, Van der Poel, Evenepoel: sono i volti di un ciclismo meraviglioso, spettacolare, totale. Ma anche di un ciclismo che non prevede intermittenza. Ogni gara è una finale. Ogni stagione è una rincorsa.

Questi corridori non solo pedalano. Vivono sotto lente d’ingrandimento. Ogni gesto è analizzato. Ogni parola è interpretata. Ogni calo è sospetto. La loro vita non è solo performance: è narrativa, immagine, pressione costante. E dentro questa narrazione, non c’è spazio per la stanchezza. O almeno, non c’era — finché Pogacar non ha aperto una breccia.

foto: ASO
Quando la sincerità diventa coraggio

Ammettere la fatica, in una cultura che celebra l’instancabilità e premia chi non si ferma mai, è un atto rivoluzionario. È il rifiuto di un copione che impone al campione di essere sempre all’altezza, sempre vincente, sempre invulnerabile. In quel contesto blindato dove ogni segnale di debolezza può diventare crepa nell’immagine pubblica, dire “sono al limite”, anche dopo aver trionfato al Tour, significa rompere il silenzio imposto dalla spettacolarizzazione dello sport.

È una disobbedienza silenziosa e potente. Perché in quelle parole — poche, sincere, disarmanti — Pogacar ha restituito al pubblico, e forse anche a sé stesso, una porzione di verità che troppo spesso viene nascosta sotto la coltre della prestazione. Una verità che afferma con forza che la grandezza non è sinonimo di perfezione, e che la vulnerabilità non ne è l’antitesi, ma parte integrante.

Quella dichiarazione non è una resa, né un inciampo. È un gesto di lucidità, di profonda consapevolezza. È come se Pogacar, per un momento, avesse messo in pausa il rumore attorno a sé per aprire una finestra su quel territorio invisibile dove si annidano le fragilità del campione: i pensieri ingombranti, le domande senza risposta, le solitudini che nessuna folla può colmare.

Ed è proprio in quel gesto che risiede il vero coraggio. Perché non si tratta solo di mostrarsi umano, ma di riappropriarsi di una dimensione troppo spesso sacrificata in nome della performance continua. È un invito — tacito ma eloquente — a rileggere la figura del campione con occhi nuovi. Non più come l’eroe intoccabile, ma come l’uomo che, dentro ogni maglia gialla, porta con sé dubbi, ansie, contraddizioni. Un uomo che, proprio grazie alla sua sincerità, ridefinisce il significato di forza.

pogacar stancofoto: Sprint Cycling
L’ingranaggio che non si ferma mai

Nel ciclismo di oggi, il concetto di “stagione” sembra svanito. Per corridori come Pogacar, l’anno non ha più un inizio e una fine, ma è un ciclo continuo che si apre con le Classiche di marzo e si chiude — se mai davvero si chiude — con i Mondiali di fine settembre, perché poi c’è il Lombardia. Tra queste due estremità si snodano mesi di gare, ritiri, picchi di forma, trasferte, interviste, allenamenti. E poco o nulla assomiglia a una pausa.

È dentro questa maratona permanente che il ciclismo moderno ha preso una nuova forma: iper-tecnologica, iper-esposta, iper-esigente. Le squadre operano come multinazionali, con staff medici, nutrizionisti, ingegneri e psicologi. Ogni pedalata è analizzata, ogni fase metabolica misurata, ogni watt ottimizzato. I programmi di allenamento sono tracciati da software che scandiscono il respiro, e le strategie si sviluppano su algoritmi predittivi.

E poi c’è l’altra faccia dell’ingranaggio: quella della visibilità. I corridori sono sotto i riflettori giorno e notte — contenuti digitali, post sponsorizzati, clip motivazionali, richieste di interazione. Il pubblico li segue come mai prima d’ora, ma la pressione invisibile cresce con ogni click. Oggi il corridore non è più solo un atleta: è un microcosmo in movimento, dove prestazione, comunicazione, identità e storytelling devono sempre coesistere.

Nel frattempo, il corpo chiede tregua. E soprattutto la mente. Ma il sistema raramente concede un vero spazio per respirare. La macchina si muove, e il corridore è chiamato a restare al suo passo, qualunque sia il costo.

Pogacar, l’uomo dietro il mito

In Pogacar c’è tutto ciò che rende il ciclismo poesia e dramma allo stesso momento: l’estetica della pedalata, quella fluidità che sfida la gravità anche nelle salite più dure; la leggerezza del talento, che fa sembrare semplice ciò che è quasi disumano; la ferocia del campione, che attacca quando nessuno lo aspetta, che non si accontenta del vantaggio, ma vuole il trionfo assoluto.

Ma al Tour 2025, abbiamo visto qualcosa di più raro. Abbiamo visto l’uomo dietro il mito. Quello che, pur vincendo, si concede un anche un momento di silenzio, uno sguardo basso, una frase sincera che pesa più di mille watt: “Mentalmente esausto.”

pogacar tour de france 2025foto: ASO
Non è un cedimento. È una finestra aperta.

Pogacar ha lasciato che il mondo sbirciasse dentro. E dentro non c’erano solo coppe, medaglie e trofei, ma dubbi, pensieri, fatica, desiderio di comprendere il senso di tutto questo correre. Non si è accontentato di alzare le braccia al cielo.

Ha voluto capire a che prezzo si diventa il simbolo di un’epoca, il riferimento di una generazione, il corridore che tutti attendono in ogni gara dell’anno. Ha corso, ha attaccato, ha vinto, ha tenuto vivo lo spettacolo. Ma nel farlo, ha vissuto anche la solitudine del leader, la pressione del mito, la stanchezza che si è vista anche nelle foto.

Quel suo momento di verità ci ha ricordato che il ciclismo è fatto di fatica — sì — ma non solo quella dei muscoli. C’è la fatica mentale, quella che pesa sulle decisioni, sulle emozioni, sulle relazioni. C’è la fatica dell’identità, quando non si sa più se si corre per sé o per gli altri. C’è la fatica del dover essere all’altezza, sempre, comunque.

E Pogacar, con il suo gesto semplice e potente, ci ha restituito questo: un ciclismo umano, imperfetto, autentico. Un ciclismo dove anche i campioni hanno il diritto di essere stanchi. Di essere fragili. Di chiedersi il perché.

“Sono a un punto in cui mi chiedo perché sia ancora qui. Sono state tre lunghissime settimane. Continuo a contare i chilometri che mi separano da Parigi. Quindi sì, non vedo l’ora che finisca, per potermi divertire di nuovo un po’ nella mia vita”. Una dichiarazione che pesa come un macigno ma che restituisce dignità all’uomo capace di incrinare il mito, svelando il volto fragile dietro l’armatura del campione.

Tadej Pogacar Strade Bianche 2025Verso una nuova narrativa dello sport

C’è un tempo per attaccare e un tempo per ascoltarsi. Un tempo per inseguire la vittoria e un tempo per accettare la tregua. Il ciclismo, come ogni sport, non è fatto solo di watt, volate, traguardi e cronometri. È anche fatto di pause, dubbi, respiri. È anche fatto di coscienza.

Forse è giunto il momento di ripensare i modelli che abbiamo costruito. Di mettere in discussione la narrazione dell’atleta instancabile, sempre in forma, sempre presente, sempre protagonista. Di ridare valore a quel gesto che sembrava dimenticato: fermarsi. Non per debolezza, ma per lucidità. Non per paura, ma per rispetto di sé.

Pogacar lo ha detto a modo suo. Non con uno slogan, né con una polemica, ma con una frase semplice, spiazzante: “Mentalmente esausto.” E in quelle parole ha ridato dignità alla stanchezza. Ha affermato, senza bisogno di una teoria, che non si tradisce lo sport se si dice “oggi basta”. Al contrario: lo si celebra, lo si protegge, lo si riporta alla sua essenza. Che non è solo conquista, ma è anche libertà. Libertà di scegliere, di rallentare, di sentire il proprio limite non come ostacolo, ma come confine da rispettare.

pogacar e vingegaard ventouxImage credit: ASO
Respirare, non solo vincere. Il nuovo coraggio del campione stanco

Il ciclismo non deve smarrire la sua anima. E la sua anima è fatta di salite, sì, ma anche di discese. Di gloria, sì, ma anche di fragilità. Di giorni di sole e di giornate in cui semplicemente non si ha voglia di uscire in bici.

Quello che serve oggi non è un nuovo record, ma un nuovo coraggio. Il coraggio di ridefinire il successo. Di dire che vincere non basta. Che durare è più difficile che dominare. Che vivere lo sport senza perdersi in esso è la vera impresa.

Il futuro del ciclismo apparterrà a chi saprà prendersi cura di sé. A chi saprà dire “sì” e anche “non ora”. A chi saprà lottare per una vittoria ma al tempo stesso per il proprio equilibrio. Pogacar, con una semplice ammissione, ha aperto un varco. E su quella strada — silenziosa, scomoda, necessaria — potranno camminare molti altri.

Non per arrendersi. Ma per restare umani. Per ricordare che essere campioni non significa soltanto vincere sempre. Significa sapere quando è il momento di respirare.

Respira Tadej, respira. E grazie per averci ricordato che nella vita tutto ha un prezzo. E che nell’accettazione della propria fragilità risiede la grandezza dell’uomo.

Pogacar bande elastiche